Viaggi26 settembre 2011

Attenzione coccodrilli

Palude sacrée de Bazoulé, BURKINA FASO.

La jeep fila veloce su una strada, un po’ pista, un po’ asfalto.
L’orizzonte è ampio, esteso, luminoso. Luce rossa e polverosa.
Sorpassiamo biciclette cariche come pullman, motorini fastidiosi che trasportano famiglie al completo, bancarelle di cibo, frutta e molto altro.
E persone che camminano.
La maggioranza sono donne.
Donne con pesi, pesi di tutti i tipi: bambini appesi a grappolo sulla schiena, fagotti in testa, catinelle, ceste, calebasses, sacchi, secchi.

Un universo sulla loro testa.

Loro non crollano.
Camminano, camminano, camminano.
Il peso è più lieve se ti muovi?
I fardelli pesano, ma i figli nascono per l’orgoglio dei padri e pesano sulla schiena di Mama Africa.
Sono incazzate.
Di una rabbia antica.
Continuano a camminare.
Io le trovo bellissime: la bellezza della realtà.

Donne africane che camminano

Corriamo, mentre Didier ci dà il benvenuto nella Terra degli Uomini Integri.
Thomas Sankara, il Che Guevara africano aveva voluto celebrare con questo nome la nascita del paese libero: Burkina Faso, la terra dei veri uomini.

Si va alla Palude dei Coccodrilli Sacri: Bazoulé.
A me importa poco dove si va.
Sono in Africa e si va. E’ l’andare che conta. Mi sento bene nella mia pelle. E sono felice.

Arriviamo a Bazoulé: una specie di Italia In Miniatura, l’Africa Kitsch in tutto il suo splendore; un villaggetto turistico che ci accoglie con rimbombante musica di Michael Jackson, surreali panchine fatte a forma di elefantini, coccodrilloni e mostruosi conigli di dimensioni esagerate, stile Incubo Di Alice.
Nell’angolo dell’artigianato (un quadratino di terra zeppo di piantine di cotone asfittiche) una tettoia di canne ricopre un vecchietto sdentato di età compresa tra i 60 e gli 80, che è stato piazzato lì a fingere di tessere. Tutto intorno a lui pendono strisce di cotone che ci vengono proposte a prezzi da boutique luxury.
Tento di divertirmi un po’ mercanteggiando.
Il tessitore è tetragono ad ogni trattativa; si vede che è sul libro paga del complesso turistico.

Nel frattempo Didier ci parla di sacrifici di polli offerti ai coccodrilli. Vedendo la mia faccia si affretta a sottolineare che il pollo è sufficiente che lo paghiamo. Non è necessario gettarlo al coccodrillo.
Io penso: “un pollo che paga un pollo”, ma so che in Africa mi capiterà spesso di sentirmi un po’ turista-pollo. Spennata va bene, l’importante è non essere sbranata.
Dopo un vano tentativo di ordinare il pranzo nel ristorante del villaggetto dobbiamo ripiegare, sconfitti da un imperturbabile signore che ci spiega che, avendo una prenotazione per 100 coperti, non se me parla proprio di aggiungerne altri 7.
Troppo stress ?
Lo guardo ammirata.
Noi non abbiamo fame. Abbiamo terminato da poco di fare colazione.
Didier invece considera questo rifiuto come un delitto di lesa maestà, un affronto personale.
Il cameriere non molla.
Didier arriccia il naso e si rabbuia.
Il cameriere visibilmente se ne frega.
Didier gli volta le spalle.
Il cameriere tiene la posizione.
E’ teatro in tutta la sua potenza.
Qui c’è molto da imparare.

Ripieghiamo sconfitti e io cerco di consolare Didier dicendogli che sicuramente troveremo un ristorante molto migliore di questo, che non offre che del montone arrostito. Le mie parole si riveleranno profetiche quando, dopo molte ore, ci siederemo finalmente a mangiare delle ottime brochettes di capitaine con le verdure in un ristorantino di Ouaga.
Per me si tratta di un cambio vantaggioso: pesce e verdura al posto della carne. In Africa vita dura per i vegetariani; dopo l’Italia e l’Argentina credo sia il paese più carnivoro del mondo.
Partiamo a piedi dal villaggetto Afrodisney dirigendoci verso la Palude Sacra.
La guida locale ci porta a vedere delle gigantesche pietrose tartarughe. Mi fanno un po’ tristezza a guardarle da dietro una rete metallica. Loro sembrano molto indifferenti. Che sia la saggezza della lentezza? Quando ci si sposta a millimetri è necessario rendersi impermeabili al mondo esterno, proteggersi bene e fare capolino solo quando del cibo cade dal cielo, come le foglie di cavolo che la guida getta loro a manciate.

Proseguiamo verso l’attrazione principale: i coccodrilli.
La guida agita il pollo legato per le zampe, a testa in giù. Ogni persona che incontriamo tiene un pollo in questo modo. Vedo un bambino che tiene così un pulcino. Ovviamente morto.
Non so bene se la scena del Piccolo Alien con il Piccolo Pollo mi fa ridere o piangere. Non sopporto la sofferenza inutile. Il piccolo pollo almeno è morto. Mi sale la rabbia e vorrei legare a testa in giù qualcuno di loro per sentire come pigolerebbero.
Cerco di distrarmi guardandomi intorno.

Donna africana disegno di Esmeralda

___________________________________   [disegno originale di Margherita Tramutoli]

La strada è rossa, interminabile; tutto intorno si estende la savana, sul fondo luccicano due stagni: a destra uno piccolo, una vera palude di erba bagnata, acqua stagnante; a sinistra un laghetto più ampio.
Dei bambini ci vengono incontro reggendo dei vegetali: gambi lunghi terminano in un bulbo fatto a palla, pieno di semi. Sono verdi, con striature bianche e rossicce.
“Semi di ninfea”
dice Didier
“Quando c’è la carestia si mangiano. Sanno di nulla, ma riempiono la pancia per un giorno o due.”

La guida piega sulla destra e rallenta,
Didier dice: “Doucement” (Lentamente)
Ci chiedono di a non fare rumore.
Pericolo reale o suspence turistica? Il dubbio mi accompagna.
Comunque nelle due pozze tra l’erba affiora una geometria regolare, una cartina topografica in rilievo. Si capisce che il coccodrillo se ne resterebbe anche lì, ma la nostra guida lo prende e lo sposta di peso.
Ci invita ad avvicinarci per toccarlo.
Gli altri esitano.

Io ho paura, ma non ho mai toccato un coccodrillo e non riesco a resistere.
So che toccare è molto diverso dal vedere. Toccando posso aggiungere un pezzetto di esperienza per avvicinarmi alla verità; la verità della realtà, che comunque mi sfuggirà, ma che – almeno per un attimo – sarà sotto le mie mani.
Un piede davanti all’altro, piano, piano, lievemente. Non voglio disturbare. La paura lascia il posto alla deferenza. Mi sento un invasore e mentalmente chiedo scusa, chiedo permesso.
Il coccodrillo è immobile: occhi chiusi. I denti spuntano lateralmente.
So che un morso potrebbe costarmi la mano, ma mi sento tranquilla. Mi accuccio vicino a lui, allungo la mano sinistra e lo tocco.
È caldo e duro, sembra un guscio; la mia idea che potesse essere viscido, freddo e umidiccio era infondata.
Toccare con mano serve a questo: a sapere come stanno le cose.
Sento il cuore che mi batte nelle dita.
Il coccodrillo resta immobile. Allontano la mano, mi rialzo con lentezza e arretro silenziosamente.
Un altro coccodrillo scivola nella pozza accanto.
Mi rifiuto di se dermici sopra, benché la guida lo faccia e mi incoraggi ad imitarla.
L’amara sensazione di poter commettere un’azione irriguardosa mi trattiene: non vedo ragione per mancargli di rispetto.
Mentre ci allontaniamo dalla pozza la guida ci spiega che quei due coccodrilli sono tranquilli, ma che quelli del laghetto non sono altrettanto innocui.
Mi viene il sospetto che quelli nella pozza possano essere drogati, malati, anziani o forse ipernutriti.
Per attirare il coccodrillo sulla sponda del laghetto la guida agita il pollo che, ovviamente, si lamenta.

Il coccodrillo striscia, il pollo pigola, i turisti scattano foto. Non voglio sentirmi parte di questa messinscena e mi allontano con Katarina.
Vado a fotografare con il mio telefonino l’unica cosa che mi sembra significativa: un cartello stradale triangolare, bianco con i bordi rossi.
Nel mezzo campeggia un coccodrillo nero.
Al di sotto un’insegna rettangolare avverte: ATTENTION CROCODILES!

Attention crocodiles primo piano

[22 dicembre 2010]

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Scrittura25 settembre 2011

Lupi

Sto seduto a questo tavolo da ore. Il cameriere mi guarda con un po’ di fastidio. Bevo solo lemonsoda. Per farlo contento e garantire a me e a Ludwig la necessaria immunità ordino un panino. Con salsiccia. E patatine fritte.
La salsiccia la porgo a Ludwig.
La addenta con educazione.
Ha imparato presto che, quando si somiglia più a un lupo che a un cane, è meglio essere educati e tenere il profilo basso.
L’orecchio sinistro sbrindellato testimonia le molte lezioni che ha dovuto apprendere.
Proprio come me.
A ognuno le sue cicatrici.
A me lo sgabello di ferro di quella guardia in carcere mi ha aperto la fronte.
Ma a Ludwig non importa.
Appoggia il muso sulle zampe anteriori e sospira.
Ha caldo.
La pelliccia che porta non è look adatto per una balera romagnola a fine luglio.
Ma con la pazienza e la tolleranza della sua specie mi accompagna da quel giorno in cui è arrivato al mercato ortofrutticolo di Stoccarda.
Magro e circospetto.

Lupi

Io stavo attendendo che finissero di caricare il mio camion. Improvvisamente vedo il cane lupo che si avvicina. Si ferma a qualche passo di distanza.
Mi guarda con occhi color miele. Profondi. Si accuccia. Appoggia il mento sulla zampe anteriori. Sospira.
Sa da dove vengo. E io so che è lì per me.

Per 20 anni in quelle notti troppo brevi per recuperare le forze, troppo lunghe per fermare i pensieri, lì, nel gelo della baracca, l’unico conforto sono stati gli ululati dei lupi. Creature selvagge, vive.
Mi consolava sapere che erano liberi. E udendo il loro richiamo la certezza di poter resistere mi riscaldava.

Lo aspettavo. Ora è qui.
Mi volto e salgo sul camion.
Alle mie spalle uno dei facchini cerca di cacciarlo.

“Lascialo stare! è con me!”

Io faccio più paura del cane. Non solo per la mia statura e le spalle larghe. Dev’essere quel taglio sulla fronte o i miei occhi… forse i pugni che mi si stringono facilmente. Gli altri non lo sanno che lo faccio proprio per non colpire e che dentro il pugno le unghie mi si conficcano nel palmo delle mani. Il dolore lieve mi riporta a quella ragione che rischio di perdere così facilmente.
Ma tutto questo gli altri non lo possono sapere.
I lupi invece lo sanno.

“E’ con me.”

Il lupo salta in cabina. Si mette al mio fianco con le zampe appoggiate sul cruscotto. Mi guarda strizzando gli occhi color miele. Poi sospira e si accuccia sul tappetino, poggiando il muso sulle zampe anteriori.
Siamo soci.
Lui è Ludwig.
Io sono Yann.

[Regina  - Zambana Vecchia, 17 ottobre 2010]

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Emozioni25 settembre 2011

Amico

30 anni in un pomeriggio.
È possibile ?

Kiss

Legati da fili di luce abbiamo percorso spazio e tempo,
uniti nel luogo del senso antico.

Incontro e separazione: un unico attimo.

Con denti digrignanti e gocce d’acqua salata negli occhi
abbiamo sopportato molte assenze.

Grinze sulla pelle e respiro soffocato
hanno segnato l’apparente scorrere del tempo.

Solo per oggi siamo qui
e ci abbracciamo nella luce.

[25 settembre 2011]

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WEB7 agosto 2011

Come io vedo FaceBook

FaceBook alla corte di Regina

Sono una Signora All’Antica
Un’Antica Signora arrivata su FB perché non se ne può più fare a meno, come dell’e-mail, del PC, del cellulare, di skype, di youtube …
Ma sarà vero ? Chissà …

Regina di cuori

Mentre mi interrogo su questo, cerco di capire come adattare queste modalità relazionali feisbukkiane alla mia educazione d’altri tempi.
Mi sento dinosaurica, ma tengo duro.
Se mi chiedete l’AMICIZIA per me è davvero un impegno. Quindi vorrei capire CHI me la chiede.
Faccio domande un po’ démodée del tipo : “ma ci conosciamo ?” E cerco di scrutare con i miei occhietti miopi le immagini del profilo per comprendere chi sono questi amici (che spesso non conosco). Mi chiedo se voglio davvero tutti questi amici che non sono amici.
Poi mi rispondo che magari lo possono diventare
E cerco di rilassarmi.

E gli inviti agli EVENTI ? Che parolona pomposa ! Per me un evento è ancora qualcosa di grandioso, tipo, che ne so … La Rivoluzione Russa, Il Crollo Del Muro Di Berlino, La Morte Del Papa … Nemmeno ai concerti afro riesco a dare la dignità di Eventi. Figuriamoci … non esageriamo ! e invece questi eventi spiccioli, consumabili, quasi invisibili, pullulano in FB e  sono talmente tanti che alla fine nemmeno li vedi più.

Quanto a baci e abbracci. Io ve li do volentieri amici miei, ma preferisco baci e abbracci veri. Comunque chi si contenta gode. Intanto di FB mi prendo il buono. Video inediti. Video sconosciuti, Interventi originali. E mi piace vedere le foto delle mie amiche e dei miei amici (quelli che abbraccio veramente, annusandoli, perché i miei amici hanno un buon odore, ma questo su FB non si sente).

La cosa che mi piace di più è CLICCARE IL TASTO IGNORA. Lo clicco spesso e volentieri: all’inizio lo cliccavo per errore, adesso che ho capito come funziona lo clicco con somma regale soddisfazione. Mi fa sentire come La Regina Di Cuori Di Alice : “Tagliategli la testa !” E che la persona sappia che ho schiacciato il tasto IGNORA non mi disturba affatto. Anche in FB rivendico il diritto alle mie scelte. Non sono obbligata a accettare tutto e tutti.

Insomma questo è FB Alla Corte Di Regina.

[28 febbraio 2010]

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Emozioni7 agosto 2011

Lo sgrunt

DESCRIZIONE E DEFINIZIONE DELLO SGRUNT
Trattasi di malattia incurabile, che porta il soggetto colpito a comportamenti assolutamente dannosi, volti a minare in maniera insidiosa e costante il suo benessere, impedendogli di godere di tutte le cose belle che lo circondano.
In alcuni gruppi di auto aiuto composti da strana gente che dice di essere malata ma in recupero lo si chiama Malattia Della Dipendenza.
Nello Sgruntoso viene infatti alterato quel sottile equilibrio che permette ai non affetti da Sgrunt di sopravvivere in mezzo ai loro simili.
La Malattia dello Sgrunt è molto più diffusa di quanto si possa immaginare.
La maggioranza delle persone sono portatori sani.
Moltissimi sono malati (anche in forma grave) e non se ne rendono conto.

Sgrunt

SINTOMI DELLO SGRUNT
Lo Sgrunt si manifesta subdolamente.
Il soggetto si sente benissimo, gode di ottima salute, la vita gli sorride (anche se il soggetto si rende comunque conto che questo accade solo perché la vita è molto stupida e sorride sempre anche quando non è il caso di farlo … )
Tutto va meravigliosamente nel migliore dei mondi possibili
POI – improvvisamente – la minima cagata (per lo più di tipo relazionale) lo getta in uno stato simile a quello di Linda Blair ne “L’Esorcista”.
La sindrome “Esci da questo corpo” si impossessa di lui.
Il soggetto comincia a delirare.
Generalmente l’oggetto principale del delirio consiste in valutazioni confusionali ed egocentriche relative alle relazioni che il soggetto intrattiene con gli esseri umani.
Tipico dello Sgrunt è ritenere che tutto ciò che non funziona sia semplicemente dovuto all’esistenza (insensata e fastidiosa) degli Altri.
Detti anche il Resto Del Mondo.
In accessi particolarmente acuti il soggetto, avendo esaurito il pianto e l’incazzatura sgruntica con tutto ciò che di vivente lo circonda, arriva a prendersela con entità soprannaturali di vario genere.
Dio (come il soggetto lo può concepire) è uno dei bersagli prediletti. In quanto gli attacchi di Sgrunt  presuppongono che il soggetto si senta – sempre e comunque – DIVERSO dagli Altri.
Migliore.
Peggiore.
Mai uguale.
E di chi è la Colpa Suprema di questo stato di cose ?
Ovviamente di Qualcun Altro.
E quando si sono esauriti tutti i Qualcuni Altri come capro espiatorio, Dio va benissimo.
In casi di Sgrunt cronico acuto il soggetto giunge a ritorcere contro se stesso l’incazzatura sgruntica, con frasi sconnesse e farfuglianti del tipo: “ecco, tutti sono stronzi, ma la colpa è tutta mia che ci casco sempre e mi faccio fregare. Non lo farò mai più”.
Gli avverbi di tempo prediletti dal soggetto in preda al delirio sgruntico sono SEMPRE, MAI, IERI, DOMANI.
Il presente non esiste.
È bandito dall’orizzonte percettivo.
Questo causa la totale assenza di senso della realtà, il sintomo più doloroso dello Sgrunt.

COME RICONOSCERE CON CERTEZZA UN ATTACCO DI SGRUNT
Il soggetto pronuncia sentenze apodittiche e categoriche, nelle quali l’Altro non è mai una Persona, bensì una mitologica e plurale entità collettiva disturbante, definita “Gli Altri”, “Tutti”, “Loro”.
Qualunque problema il soggetto debba affrontare è “colpa di qualcun altro”.
Ovviamente stronzo.
La perniciosa tendenza a dire al prossimo TU DEVI, anziché dire a se stesso IO POSSO è un altro dei sintomi inconfutabili dello Sgrunt.
Il desiderio di farsi del male, spesso coronato da successo, è il sintomo certo.

PERCHE’ E’ IMPOSSIBILE GUARIRE
La guarigione è impossibile perché lo Sgruntoso NON VUOLE GUARIRE.
La consapevolezza di essere malati è l’unica possibilità di provare a tenere a bada il mostro.

Sgrunt di più
CHE FARE PER ALLEVIARE LE SOFFERENZE DELLO SGRUNTOSO
Non si può fare nulla.
Il soggetto affetto dallo Sgrunt soffre veramente.
Quello che prova è vero dolore, vera rabbia, vera paura.
E tutte queste emozioni sono sue.
Quindi se le deve tenere, smazzare e vivere.
Però se lo Sgruntoso lo desidera ci sono dei posti in cui molti sgruntosi si riuniscono frequentemente e si raccontano tutti i loro sintomi da Sgrunt.
I più gravi dicono che funziona, ma è necessario ricordarsi di prendere la terapia tutti i giorni.
Non si tratta di una terapia a scalare.
Appena scali sei fottuto.

[27 settembre 2009]

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