Scrittura, Viaggi16 febbraio 2019

Cibo da compagnia

Animali d’affezione, cioè tutti

Durante i mei 4 anni di vita a Sao Tomé e Principe non avevo cani o gatti con me. Gli animali di compagnia non erano visti di buon occhio; per gli africani negli anni ’80 il mondo animale si divideva in due grandi classi, alla faccia di Linneo: gli elementi pericolosi – categoria in cui i cani, le scolopendre e il mamba nero venivano raggruppati – e la classe cibo, che accoglieva tutte le altre specie.
“C’est la bouffe qui passe patronne!” rispose un giorno uno dei portatori gabonesi alla mia richiesta di conoscere il nome di un serpente che ci aveva attraversato la strada.

Italiani brava gente: “io non ti mangio”
I santomensi mangiavano qualunque tipo di selvaggina o pesce, escluse le aragoste; quelle per loro erano spazzatura nemica, che distruggeva le reti con le chele. Una volta compreso che noi ne andavamo ghiotti, cominciarono a vendercele, a prezzi sempre più cari, via via che la richiesta aumentava, secondo le migliori regole dell’ortodossia economica. Poi provarono a proporci altri animali, che noi rifiutammo categoricamente di mangiare. Dopo l’episodio di un gabbiano ferito, portato a casa di una mia collega in veste di merce edibile e amorevolmente risparmiato e curato, la voce che i cooperanti italiani erano un po’ malucos (pazzi eccentrici) e invece di mangiare gli animali se li tenevano in casa, si sparse. Da quel giorno ci fu offerto (a pagamento) di tutto e in continuazione: gatti con le gambe spezzate, cani rognosi tramortiti da scontri con jeep e camionette, galline sperdute.

Gallina salva fa buona compagnia
La mia amica Alessandra costruì addirittura una scaletta perché la sua gallina, salvata dalla morte, potesse uscire da sola a passeggio nella corte, passando dalla finestra.
Gallina era molto abile a evitare gli agguati dei bambini che cercavano di trasformarla in pasto, si vedeva che era una consumata ribelle, sfuggita a precedenti insidie per perizia o perché covata sotto una buona stella.

Gino capretto clandestino
A Pasqua il falegname del villaggio ci chiamò per donarci un capretto, in segno di riconoscenza per la nostra collega medico, che aveva curato suo figlio. Eravamo veramente afflitte: dovemmo andare da lui a caricare sulla jeep il capretto legato e urlante. Facemmo finta di accettare. Fu un viaggio infernale, fortunatamente breve. Una volta a casa Gino (il capretto lo chiamammo così) fu liberato dalle corde e rimase a vivere con noi. Al nostro autista fu fatto giurare di mantenere il segreto sulla sua sopravvivenza e l’empregada (la governante) fu istruita a montare la guardia per nascondere Gino in caso fosse apparso il falegname all’orizzonte.
Evento che fortunatamente non si verificò, perché di sicuro Gino avrebbe scelto il momento più inopportuno per belare a pieni polmoni. In segno di gratitudine Gino il clandestino divorava qualunque pianta, ortaggio, oggetto, ferramenta di piccola taglia, trovasse in cortile. Teneva tutto molto pulito, purtroppo il suo concetto di pulizia includeva anche scarpe e indumenti, di cui Gino si serviva tirandoli giù direttamente dalle corde su cui venivano sciorinati.
Umidi gli piacevano molto.

La Gaia belva
Fu così, grazie al nostro sconsiderato amore per gli animali, che arrivò da noi anche Gaia.
Con notevole sforzo creativo Stefano e Lidia l’avevano chiamata Gaia perché il nome che le davano i santomensi era Lagaia. Si trattava di uno zibetto africano. Non sapevamo nemmeno se fosse maschio o femmina, ma ormai per noi era Gaia.
Carinissima, con un musetto simpatico e una folta pelliccia, rischiava e rischia tuttora la vita perché è considerata un pasto prelibato e la sua pelliccia è molto apprezzata come ornamento. Era così tenera che ce ne innamorammo subito, senza minimamente curarci di prendere informazioni su di lei. All’epoca il concetto di specie protetta era di là da venire e noi eravamo sinceri e inconsapevoli amanti degli animali: al massimo si pensava a proteggere le balene o il panda gigante.

Ben presto Gaia si rivelò l’ottava piaga d’Egitto.
Mordeva come una tigre, puzzava come un orinatoio, ringhiava con voce da iena, quando era incazzata (accadeva spesso che lo fosse) si gonfiava come un gatto furioso e nottetempo razziava con metodo i pollai dei vicini, che il giorno dopo si presentavano alla nostra porta con i resti dei cadaveri sanguinanti, esigendo giustizia e rimborso.
Mettendomi nei suoi panni, anzi nella sua pelliccia, comprendo adesso quanto dovesse soffrire un animale notturno, selvatico, solitario, cacciatore e carnivoro, abituato a dormire di giorno nella vegetazione fitta e a nutrirsi uccidendo anche grandi prede, nel ritrovarsi chiuso in una casa con un gruppo di umani bene intenzionati, ma sprovveduti e ignoranti, che cercavano di grattarle la pancia, accarezzarla e farla diventare vegetariana.
Io avrei ucciso per molto meno.
I meno decerebrati del gruppo si opposero a questa tortura e riuscimmo a convincere gli altri a liberare Gaia nel suo habitat.

La liberazione di Gaia
Organizzammo una spedizione con l’aiuto di Fernando, il nostro autista, che si prestò, a malincuore, ad aiutarci a rilasciare nella foresta quell’ottimo bocconcino. Facemmo costruire una solida gabbia in legno e Gaia fu incappucciata e legata per l’ultima volta. Si difese con ardimento e, malgrado gli spessi guanti da lavoro che gli indomiti mercenari, da noi ingaggiati per la bisogna, indossavano per proteggersi, Gaia lasciò il segno.
Durante il trasportò ringhiò, graffiò, cagò, pisciò e produsse secrezioni ripugnanti che ci accompagnarono per mesi, come monito a lasciare in pace la fauna selvatica. Di sicuro l’eroico zibetto insegnò la lezione anche ai locali, che da quel momento si guardarono bene dal portarcene altri esemplari.

Billy, lo Jacquot innamorato
Uno dei rari santomensi che possedevano animali di compagnia era il fratello del ministro dell’Economia, che lavorava alla sede locale delle Nazioni Unite. Era anche il mio compagno, diciamo la relazione principale che intrattenevo in quei tempi di giovanili follie, in cui mi ero adeguata senza problemi all’allegra gestione dei rapporti intimi con l’altro sesso.


Lui viveva con Billy, un pappagallo parlante, per l’esattezza era un pappagallo cenerino, uno Jacquot, quelli bruttarelli, grigi con la coda rossa, gli unici in grado di produrre suoni simili alla voce umana, un po’ come i merli indiani. Pare siano super intelligenti e morbosamente affezionati ai loro padroni. In effetti Billy adorava il suo padrone e quando lui ed io litigavamo mi inseguiva per becchettarmi le caviglie.
A me non piaceva, non ho mai avuto grande simpatia per i pennuti e capivo benissimo che per Billy ero la rivale, l’intrusa che gli contendeva le attenzioni del suo grande amore. Io abitavo in un’altra casa, ma quando andavo a casa del mio compagno in sua assenza, non appena l’empregada socchiudeva la porta, alle sue spalle si palesava Billy, giunto a controllare chi fosse che aveva bussato. Se i suo unico amore era presente Billy gli saltellava intorno ripetendo insistentemente: “cossa Billy, cossa”, “gratta Billy, grattalo”, dandogli colpettini con la testa contro le mani per farsi grattare le piume.
Benché mi infastidisse riconosco che era uno spettacolo di seduzione unico: Billy inclinava il capino, si sprimacciava le piume, faceva la ruota con le ali e poi sbirciava il suo amore coprendosi vezzosamente il becco con l’ala a guisa di ventaglio, avvicinandosi di sghimbescio, accennando passi di danza. Queste premure erano esclusivamente riservate all’oggetto della sua devozione e non mi restava che attendere pazientemente che l’amoreggiamento terminasse, sennò le mie caviglie ne avrebbero fatto le spese.

Tutti questi animali popolavano le case dei miei amici e colleghi.
Infine una sera giunse anche per me l’incontro con il mio animale d’affezione santomense.

Corniglio e la sua progenie
Stavo tornando dal Bataclàn, l’unica discoteca dell’isola, insieme alla mia amica, quando vedemmo, fermo in mezzo alla strada, abbagliato dai fari dell’auto, un coniglio bianco.
Inchiodai la jeep e scesi per raccogliere l’incauto coniglio autostoppista prima che qualche santomense lo scorgesse e se lo portasse a casa per farlo finire in pentola. Lì per lì non avevo un piano; l’obiettivo immediato era salvargli la vita. Arrivate a casa la mia amica ed io chiudemmo Coniglio in ufficio, dove lui passò la notte rosicchiando tutti i cavi elettrici che riuscì a raggiungere. Il giorno successivo chiamammo un veterinario e l’elettricista.
Del veterinario in seguito non ci fu più bisogno, mentre con l’elettricista avremmo stretto un patto a vita.
Gli venne dato il nome Coniglio, che i santomensi trasformarono in Cornelio, perché in porrtoghese coniglio si dice “coelho” e avevano pensato che invece Coniglio significasse Cornelio in italiano. A quel punto decisi di attuare un’operazione di sincretismo culturale chiamandolo Corniglio e quel nome gli rimase finché ebbe vita. Una vita che fu lunga, serena e prolifica.

Tra la corale disapprovazione del personale santomense Corniglio fu accolto in casa non come portata in un menù, ma come membro della cooperazione italiana a Sao Tomé e Principe.
Pensammo di lasciarlo libero in giardino e la scelta fu di suo gradimento. Corniglio cominciò a scavare peggio di una talpa, destando le ire del giardiniere che si vedeva devastare il frutto delle quotidiane fatiche. La bastardaggine di Corniglio era pari alla lunghezza delle sue orecchie e lo spingeva a scavare proprio nelle aiuole e nel terriccio dissodato di fresco, che gli richiedeva un minor impegno nell’operazione. Alle sue perforazioni non sopravviveva nulla e alla fine l’ebbe vinta lui: il giardiniere si arrese a non avere in giardino che alberi di grosso fusto ed erba infestante, rinunciò ai fiori e Corniglio restò dominatore assoluto del territorio. Preoccupate per l’equilibrio psicofisico di Corniglio pensammo che, se gli avessimo trovato una compagna, anziché bucherellare il terreno, magari si sarebbe impegnato in altre attività ludiche. Immemori del significato del detto “figliare come conigli” contattammo un allevamento e comprammo Corniglia.
Lei si comportò secondo natura: 5 parti all’anno, con 10 – 12 corniglietti ad ogni parto. I corniglietti appena nati stavano con lei, poi, per proteggerli da cani e gatti, li trasferivamo in ufficio, dove loro rosicchiavano con perizia tutti i cavi elettrici. Arrivava l’immancabile elettricista che ogni volta si stupiva del fatto che i roditori non restassero mai fulminati, riparava i cavi e ci proponeva di acquistare in blocco i guastatori. Al nostro fermo rifiuto se ne andava ridendo e scuotendo la testa. Quando i corniglietti erano cresciutelli andavano ad accrescere le schiere dei conigli ormai inselvatichiti che popolavano lo spazio all’aperto e la storia proseguiva: il nostro giardino era diventato la collina dei conigli.

Pareva che la colonia dei Cornigli sapesse di abitare in una zona franca, perché se ne stavano lì a scavare, senza alcuna pulsione a esplorare l’infido spazio oltre la recinzione. I predatori, umani e animali, erano però in agguato, quindi ci sentimmo in dovere di assumere un guardiano diurno e uno notturno (armati di machete) per proteggere i Cornigli. La nostra fama di malucos (pazzi eccentrici) si sparse in tutta l’isola e i bambini accorrevano a vedere quei matti degli italiani che pagavano elettricisti e guardiani per tenersi degli inutili conigli vivi in giardino, mentre avrebbero potuto mangiarseli.

Ogni mattina Fausta, la nostra empregada, anziché dirci “bom dia”, scuoteva la testa, guardava noi, poi i Cornigli, poi di nuovo noi, riscuoteva la testa e pronunciava lapidaria la sua sentenza “que gasto!” che spreco!

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WEB16 ottobre 2018

A scuola di Personal Branding da Pinocchio

Competenze essenziali all’epoca di web 4.0?
Leggere, scrivere, far di conto.

Oggi, confrontandomi con l’interessante quesito posto dal collega Davide Dal Maso su quali siano le competenze essenziali per il profilo di un ADDETTO VENDITA, ho visto dai commenti che l’importanza del Personal Branding è ritenuta cruciale.
Ma come si fa a costruirlo quando si hanno 18 anni – a volte anche meno?

Per costruire il Personal Branding si deve innanzitutto reimparare a pensare, leggere e scrivere.
Purtroppo a scuola ormai spesso si disimpara. Le persone si annoiano e disertano i libri e la scrittura. La scuola, asservita al mercato, si arrabatta per fornire competenze digitali che, quando vengono insegnate, sono già obsolete, mentre i millennial e la generazione Z se la cavano benissimo a smanettare da soli sui loro smartphone.
Il punto è proprio questo: se la cavano a smanettare, ma spesso senza coscienza e senza consapevolezza.

Anche nel digitale, senza coscienza non otteniamo risultati.
Senza contenuti non c’è relazione.
Senza relazione non c’è vendita.
Senza vendita non c’è libertà finanziaria, né crescita personale, né professionale.

No Personal Branding, no Business.
Il Personal Branding presuppone che si sappia anche cosa si vuole e cosa non si vuole, cosa piace e cosa no, quali sono i propri talenti e le proprie passioni. Come si fa a costruire questa consapevolezza?
Con la buona vecchia scrittura.
Scrivendo domande su domande, rispondendo per iscritto, perché non è vero affatto che tutto resta in testa.
Chi sono, cosa faccio, perché lo faccio, perché un’azienda o un cliente dovrebbe scegliere proprio me anziché qualcuno tra i milioni di altri, apparentemente uguali a me.

E’ sull’unicità che si deve puntare, ma per comunicarla bisogna conoscerla.
Quando si scrive un testo, si sceglie una foto, si prepara lo storyboard di un video, bisogna scrivere le domande:

  • - a chi sto parlando?
  • - chi è il pubblico che cerco?
  • - quali aziende cerco?
  • - con quali ruoli e funzioni aziendali è conveniente che io parli per raggiungere il mio obiettivo?
  • - cosa voglio che facciano le persone quando visitano i miei profili o le mie pagine o vedono i miei video?
  • - che cosa offro loro?
  • - quali sono le soluzioni che porto per i loro problemi più comuni?
  • - cosa piace al mio pubblico?
  • - cosa non gli piace?

Qual è il mio obiettivo?
Lavorativo, personale, umano, spirituale?
Il sistema scuola con le divisioni in materie non ha senso, ma il vero approccio umanistico, filosofico e multidisciplinare non è quello di stiracchiare i concetti per trovare collegamenti dove non esistono. Si basa sulla realtà, la conoscenza, l’informazione – non quella superficiale e in comode pillole video – ma quella che si apprende studiando, leggendo e scrivendo. Gli scienziati del Rinascimento erano artisti, visionari e artigiani. Leonardo immaginava macchine fantastiche, le costruiva e dipingeva la bellezza.
Tornare a leggere, scrivere, ammirare le opere d’arte e cimentarsi in attività creative mantiene in vita il cervello e stimola il corpo; contribuisce a costruire spessore umano.

Che altro è il Personal Branding, se non quella speciale aura luminosa, alimentata da talenti e passioni, che gli altri ci riconoscono quando la coltiviamo?

Prima di farcire i programmi di parole complicate, forse è il caso di tornare ai tre pilastri della scuola di Pinocchio.
Leggere, scrivere, far di conto.
Strumenti essenziali per attingere alle basi della conoscenza.
Senza questi non si va da nessuna parte, si resta teste di legno, perennemente imprigionati in un Paese dei Balocchi che altri hanno costruito per noi, mentre Mangiafuoco sta alla cassa.

Pinocchio è la storia dell’iniziazione: da burattino a bambino in carne e ossa, cuore, cervello, soprattutto Coscienza.
Finché Pinocchio non matura la sua propria coscienza, gliene presta una il Grillo Parlante, ma i grilli parlanti stanno nelle fiabe e, forse, nel mondo reale, la coscienza conviene coltivarla, nutrirla, farle domande e ascoltare le sue risposte.

Alla fine, se mi chiedo quali sono le competenze essenziali per un addetto vendita (e per qualsiasi altro ruolo) mi rispondo sempre: leggere, scrivere, far di conto.

Il resto te lo insegna la vita.

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WEB25 settembre 2018

Prima l’uovo o la gallina?

“Il mondo è uno specchio che a ciascuno restituisce la sua immagine.”
[William Makepeace Thackeray, La Fiera delle Vanità]

Personal Branding, Corporate Identity e le insidie dell’internazionalizzazione

Quando un’azienda comunica con il mercato spesso si preoccupa di Vision, Mission, Valori, Filosofia, ma a volte trascura un dettaglio sostanziale: prima della Corporate Identity viene il Personal Branding (dell’imprenditore del Sales Manager, del HR, etc.). La riflessione sul PB presuppone che si sappia cosa si vuole e cosa non si vuole, cosa piace e cosa no, quali sono i propri talenti e le proprie passioni.

E’ sull’unicità (delle aziende e delle funzioni aziendali) che si deve puntare, ma per comunicarla bisogna conoscerla. Quando si scrive un testo, si sceglie una foto, si prepara lo storyboard di un video, bisogna scrivere le domande. Lo so, sono sempre le solite.
E allora perché non ce le poniamo più spesso? Almeno una volta al giorno?

  • -       a chi sto parlando?
  • -       chi è il pubblico che cerco?
  • -       quali aziende cerco?
  • -       con quali ruoli e funzioni aziendali è conveniente che io parli per raggiungere il mio obiettivo?
  • -       cosa voglio che facciano le persone quando leggono le mie brochure, vengono al mio stand in fiera, visitano i miei profili e le mie pagine social o vedono i miei video? La CTA efficace deriva dalle risposte a queste domande.
  • -       che cosa offro loro?
  • -       quali sono le soluzioni che porto per i loro problemi più comuni?
  • -       cosa piace al mio pubblico?
  • -       cosa non gli piace?
  • -       quali sono gli obiettivi personali, professionali e aziendali?

Le insidie della Corporate Identity che viaggia all’estero.
Quando la comunicazione coordinata di un’azienda si mette a viaggiare, rimette in gioco tutta la comunicazione.
Se fin dall’inizio l’azienda aveva una strategia, è possibile che ne esca vincente. In caso contrario, se non si fa attenzione anche ai dettagli, se ne esce con le ossa rotte.
Se il payoff aziendale è in dialetto veneto (che fa tanta simpatia al pubblico del profondo nord est), è possibile che i cinesi non colgano la sottile ironia.
Se nel logo vi sono immagini troppo dettagliate, ma mancano simboli essenziali e archetipici, che parlano all’immaginario collettivo, difficilmente, sul mercato internazionale, otterremo l’immediata comprensione di ciò che andiamo a proporre.
Le insidie sono in agguato nel nome a dominio impronunciabile, nel testo tradotto alla bell’e meglio con translator, nelle foto pubblicate sul sito che, anziché rappresentare l’azienda, si sbizzarriscono in ardite metafore sulla squadra e il team building, cosicché la gente pensa che un’azienda metalmeccanica, anziché produrre motori o macchine, noleggi barche a vela o produca abbigliamento sportivo.

Il delirio sui social
Sui social è spesso il delirio più assoluto: LinkedIn – la piattaforma ideale per il B2B e l’internazionalizzazione – viene usata come se fosse Facebook: foto di copertina con paesaggi montani (peccato che la persona in questione sia il Direttore Vendite di un’azienda che produce macchinari per il tessile), pagine aziendali create come se fossero profili, con tanto di collegamenti; competenze inserite a caso, tra cui campeggiano al posto d’onore la specializzazione in Word, Excel e Power Point.

Quando poi ci si addentra nella cultura del nuovo mercato di riferimento sembra che ci si scordi all’improvviso la verità fondamentale del marketing: “io, che sono esperto in un determinato settore, NON SONO TARGET”.

Le Parole Chiave non sono quelle che pensi tu, ma quelle che dice Google
A volte, quando provi a chiedere quali sono le parole chiave individuate dal SEO Specialist vieni guardato con sorpresa mista a un po’ di stizza e ti senti rispondere con parole chiave settoriali, di solito in inglese.
A questo punto l’indagine è d’obbligo: il pubblico parla inglese? Si tratta di un pubblico colto, preparato, specializzato? Che lessico usa? A chi stiamo parlando? A volte l’inglese funziona, a volte no.
Il registro informale e colloquiale, tanto caro al pubblico WASP, risulterà indisponente negli Emirati Arabi. Fare i simpaticoni con cinesi e russi non sempre paga.

Il luogo comune non è utile alla mediazione culturale
Noi italiani, che ci vantiamo di essere aperti, tolleranti e accoglienti, rispolveriamo tutti i più triti pregiudizi quando ci troviamo a comunicare con i mercati internazionali.

Le equazioni Arabi uguale lusso, Russi uguale moda appariscente, Cinesi uguale concorrenza sleale sono dure da sradicare.
Ogni paese rappresenta un’immensa ricchezza culturale e mille sfumature di diversità: fare di tutta l’erba un fascio non ci aiuterà a individuare le famose e decantate nicchie di mercato. La nicchia è, per definizione, un’entità che sfugge alla massificazione e al luogo comune.

Se provate a parlare con i mediatori culturali o con gli esperti di internazionalizzazione, come il mio collega Vasyly Torchynovych farete scoperte interessanti su cosa realmente piaccia o non piaccia al pubblico straniero.
Il fai da te basato sul pregiudizio può essere pericoloso e minare alla base il successo di un progetto di espansione internazionale.

Lo faccio bene e tanto basta.
Le PMI alla Fiera delle Vanità.
Già nel secolo scorso Marshall Mac Luhan ci ammoniva sull’importanza della presenza mediatica ai fini della diffusione di prodotti e servizi. In questo secolo e nell’era di WEB 4.0 è inutile illudersi: lavorare bene ed essere virtuosi non è sufficiente.
Se vuoi esistere per il mercato, DEVI saper comunicare in modo adeguato al tuo pubblico e ai tuoi obiettivi.Come in una novella Fiera delle Vanità ciò che trasmetti e quello che il pubblico recepisce di te e della tua azienda farà la differenza.

ESERCIZI PER L’IDENTITA’
Di seguito ti segnalo qualche semplice esercizio (da fare per iscritto) per allenarti a costruire l’IDENTITA’ da comunicare.

  • -          Descrivi in 30 parole al massimo ciò che fai.
  • -          Perché fai questo lavoro? Sei felice di farlo? Per chi lo fai?
  • -          Il payoff della tua azienda ti soddisfa? Se non ce l’hai, scrivilo, pensando al pubblico al quale ti rivolgi.
  • -          Sei in grado di spiegare il significato del tuo logo in 30 parole?
  • -          Individua 5 parole chiave per il tuo prodotto/servizio o per la tua mansione. Scrivile.
  • -          Scrivi un breve racconto che contenga queste 5 parole. Max 500 parole. Dai un titolo.

Gli Altri (purtroppo) esistono.
Collaboratori, clienti, fornitori, competitors possono essere il tuo peggior “nemico” o preziosi alleati e maestri.
Anche in questo caso facciamoci qualche domanda (e rispondiamo – sempre – per iscritto). Potremmo sorprenderci.

  • -          Cosa vedi di BUONO negli altri? Competenze lavorative, doti umane, etc.
  • -          In cosa li vedi/senti DIVERSI da te.
  • -          In cosa li vedi/senti UGUALI o SIMILI a te.
  • -          Perché vuoi collaborare con loro: vantaggi per te e vantaggi che offri a loro.
  • -          Cosa vuoi fare tu.
  • -          Cosa ti piacerebbe che facessero gli altri?
  • -          Sei in grado di spiegare esattamente a un tuo cliente che cosa fanno i tuoi collaboratori? Scrivilo in 30 parole.
  • -          Sei in grado di spiegare esattamente a un tuo collaboratore che cosa fa un vostro cliente/ fornitore? Scrivilo in 30 parole.
  • -          Perché vuoi competere con loro
  • -          In che cosa sai che loro sono migliori di te?
  • -          In che cosa sai di essere MIGLIORE?
  • -          Scrivilo in 30 parole, per spiegarlo ai tuoi potenziali clienti.

Buon lavoro!

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Scrittura16 agosto 2018

Orologi e mutande. Figuracce autobiografiche

Sono a scuola, in seconda elementare.
Sono una “brava bambina”, studiosa e obbediente.
Alla maestra piaccio molto e alle compagne non dispiaccio, benché sia una secchiona, perché aiuto, passo generosamente i compiti da copiare e, quando si tratta di scrivere cronache e temi in italiano, mi trasformo in una vera e propria macchina che sforna testi a profusione, ovviamente tutti diversi, avendo anche l’accortezza di inserire qualche piccolo refuso.
Fin da piccola sono un genio del male!

Stiamo imparando a leggere l’ora perché in seconda si fa la cresima e con la cresima – si sa – i padrini e le madrine ti regaleranno l’orologio e mica si può fare la figuraccia barbina di non saperlo leggere!

Per insegnarcelo la maestra ci fa allenare su un grande orologio a muro, tondo e giallastro. Lo ricordo nitidamente perché fu il mio incubo.
Ero una bambina iper miope, in veneto si direbbe “orba come un talpòn” (che era proprio ciò che mi ripetevano mie sorelle), ma cercavo disperatamente di non aggravare ulteriormente il mio senso di disagio e inadeguatezza indossando anche gli occhiali, che quando ero bambina erano di una bruttezza imbarazzante e avrebbero definitivamente sancito il mio status di “topo da biblioteca”.
Quindi mi barcamenavo alla bell’e meglio, sedendo in primo banco e, grazie all’aiuto della mitica Alfonsina Bressan, che andava malissimo in italiano, ma ci vedeva come un’aquila, me la cavavo nel copiare i compiti alla lavagna, grazie alle sue dettature sommesse e rapide, sussurrate quando la maestra ci dava le spalle.
In cambio Alfonsina aveva la prelazione sui temi di italiano che macinavo come una catena di montaggio.

Ma con l’orologio è un altro paio di maniche:
Alfonsina è pessima.
Ci vede dieci decimi, ma confonde le lancette e quindi – impotente a soccorrermi – assiste rattristata alla mia disfatta.
La maestra non si capacita e io mi sento una traditrice della sua fiducia.
Per fortuna nei giorni successivi la lettura dell’orologio diventa materia di interrogazione alla cattedra.
E’ la mia salvezza: a meno di un metro dal quadrante maledetto riesco a distinguere numeri e lancette e, con voce squillante e sicura, declamo gli orari che la maestra compone per verificare se sappiamo leggere l’ora.
Prendo il solito bel voto e mi aggiudico, come ulteriore gratifica, l’ambito premio supplementare di indicare con la bacchetta le nuove parole da leggere e imparare, scritte alla lavagna dalla maestra.
Ogni settimana viene designata un’alunna meritevole per questa mansione: lei indica le parole e le interrogate le devono leggere. Oltre ad assaporare il potere di impugnare la bacchetta dell’insegnante, si gode del privilegio di non essere interrogate.

Fu così che un brutto giorno si consumò per me la più vergognosa e disdicevole esperienza.

E’ quasi l’una e la maestra mi chiama alla lavagna per indicare le parole.
Mi porge la bacchetta e mi rendo conto, con orrore, che, sotto la gonna e il grembiule, qualcosa non va.
Mi scendono le mutande.
L’elastico infingardo ha scelto proprio quel momento di mia massima autorevolezza per cedere.
Incerta su come procedere, barcollo. Cerco di trattenere le mutande al di sopra degli indumenti, ma la presa non è delle più semplici. Nel frattempo devo alzare il braccio destro per tendere la bacchetta verso la lavagna.
Ho sette anni e sono piccola. A ogni estensione del braccio sento le mutande scivolare inesorabilmente.
Mi contorco: un colpo di bacchetta alla lavagna e una rapida strizzata al grembiule, al di sotto della vita, nel disperato tentativo di raggiungere e placcare le mutande al di sotto delle gonne. Devo sembrare un ginnasta contorsionista, ma nessuno ci fa caso, né la maestra (troppo occupata a rampognare chi commette errori) né le mie compagne, protese nello sforzo di compitare le lettere.
Nessuno bada a me.
Oggi mi fa persino ridere l’idea di come restassero ignare e impassibili mentre sotto i loro occhi si consumava la tragedia della frantumazione del mio personal branding. Ma forse se ne erano accorte e avevano scelto di far finta di nulla per non umiliarmi, in fondo ero la prima della classe e poi magari mi volevano anche un po’ di bene.
Chi l’ha detto che i bambini sono crudeli?

In qualche modo giungo alla fine dell’incarico e posso finalmente correre in bagno a sfilarmi le mutande e nasconderle in cartella: ho vinto, non sono cadute a terra, le ho tolte io.

Da quel giorno pretesi di indossare la rassicurante calzamaglia, che con il suo avvolgente abbraccio avrebbe arginato possibili crolli di lingerie e autostima.

Che sia così che si costruisce il proprio look?

© Photo by Noah Silliman on Unsplash

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Scrittura16 luglio 2018

La casa della memoria

Mi ricordo…
tanto, tutto.

A volte mi sembra di essere sommersa dai ricordi di quand’ero piccola, bambina, anche se non riesco a risalire con ricordi coscienti e nitidi oltre i 4 anni, ma ricordo.
Ricordo immagini, flash; ricordo la casa di Cornuda, quella casa dove, ancor oggi, a quasi 60 anni, la mente corre quando deve ambientare qualche scena; quando, leggendo un romanzo, voglio collocarne il protagonista in un luogo fisico.

Allora il giardino diventa la Giungla Nera, dove Kammamuri arranca sul Giaròn, mentre pellerossa appostati tra le pannocchie lo prendono di mira con frecce incendiarie.

Alice scava cunicoli nelle aiuole di garofanini cinesi, i fiori preferiti di mia nonna Regina, inseguendo il Bianconiglio che si tuffa sottoterra estraendo l’orologio a cipolla dal panciotto.

Quella casa è LA casa.
Forse lo è perché, in realtà, mica me la ricordo davvero… è come se fosse una casa diffusa, con stanze che affiorano dalla memoria, come isolotti di secca nella bassa marea, scollegate tra loro e ognuna percepita e assaporata come unità a se stante.

La casa della memoria.

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