Arte, Emozioni10 febbraio 2013

Silenzio: Venezia è di scena.

Il Carnevale 2013 fotografato da Renato Vettorato.

Il più fotografato carnevale del mondo è di scena ancora una volta in questa fantastica città che non si limita a fare da sfondo.
L’obiettivo di Renato Vettorato gioca con la luce e valorizza le figure in maschera, ora mimetizzandole, ora mettendole in risalto su sfondi di antica bellezza.

Minuti dettagli si focalizzano al nostro sguardo.
Tutto intorno la magia della luce.

Carnevale Venezia 2013 foto di Renato Vettorato

Carnevale Venezia 2013 foto di Renato Vettorato

Carnevale Venezia 2013 foto di Renato Vettorato

Carnevale Venezia 2013 foto di Renato Vettorato

Carnevale Venezia 2013 foto di Renato Vettorato

Carnevale Venezia 2013 foto di Renato Vettorato

Carnevale Venezia 2013 foto di Renato Vettorato

immagini per gentile concessione di Renato Vettorato
http://www.renatovettorato.it/carnevalevenezia/

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Viaggi10 febbraio 2013

Afro taxi driver

Sono le tre del mattino: Sandro ed io stiamo uscendo da Les Bambous, dopo il concerto di musica afro e cerchiamo un taxi. Ne arriva uno che scarica tre signori ubriachi e fa salire noi, ripartendo mentre loro cercano di introdursi nell’abitacolo, infilando testa, spalle e braccia nel finestrino per offrirci della birra.
Nell’auto siamo in quattro: Sandro, io, il tassista ed un signore che inizia la conversazione di rito: “Ca va? Français?… Espagnols?… ah! Italiens!… Italiano, como va? como stai?”
Appurato che siamo italiani e alloggiamo all’associazione Siraba, ci aggiorna sulle sue conoscenze in seno all’organizzazione. Sul suo viso affiora un lieve disappunto nello scoprire che quelli che conosco io non sono quelli che conosce lui. Parla, parla, parla. Il tassista guida in silenzio. Si ferma a caricare un altro tizio e scarica il conversatore ad una stazione di servizio.
Riparte. Dopo un po’ frena di colpo e carica due signore in abiti succinti. Riparte. Gira a destra, a sinistra, a destra. Gira in tondo. Strade sterrate, polvere. Gira a destra, a sinistra. Sembra di stare sempre allo stesso punto e in effetti, dopo un po’ ci ritroviamo di fronte a Les Bambous, da cui eravamo usciti mezz’ora prima. Le signore sono arrivate. Il tassista riparte. Non torna indietro. Prosegue e continua a girare a destra e a sinistra in questa città fatta di tanti settori tagliati da strade. Alcune asfaltate. Poche. La maggioranza sono piste di sabbia, polvere e spazzatura, che separano una fila di case dall’altra.


© foto by Marcell Claassen – http://www.flickr.com/photos/marcell_claassen/

In auto siamo sempre in quattro: Sandro, io, il tizio ed il tassista, che ora si ferma a caricare una ragazzetta con due fagotti. Dopo un po’ il tizio scende. Il tassista cambia direzione e si inoltra nel nulla buio di un quartiere che potrebbe essere situato in qualunque punto cardinale della città. Buio totale. Buche profonde. Procediamo a sobbalzi e svoltiamo a sinistra, costeggiando un muro alto, color fango. Sempre buio, molto buio. Nemmeno le case sono illuminate: ci fermiamo in un vicolo più buio degli altri. Il tassista spegne i fari prima di arrestare il motore e in quegli attimi di nero assoluto la ragazzetta scende e sparisce in una casa buia, con i suoi fagotti.

Ripartiamo, proseguendo in linea retta finché, sobbalzando, ci ritroviamo su una strada asfaltata. Viaggiamo spediti. “Vedrai che ora ci porta a casa” sussurro a Sandro.
Stiamo procedendo da qualche minuto nella medesima direzione, quando il conducente frena, inchiodando il taxi nel bel mezzo di un incrocio. Non ha lo specchietto: si volta per fare marcia indietro e, sorridendo, ne approfitta per dirci: “Client!”
Marcia indietro e ardita svolta a sinistra contromano.

Il “cliente” è una maman grassa, seduta su tre sacchi di plastica, stracolmi di qualcosa. E’ vestita a festa: pagne giallo e blu e un bel foulard bianco e azzurro. Intorno a lei sono disposti i bagagli, in ranghi ordinati: due fagotti di tela, tre secchi di plastica, una cesta, alcune conche impilate una sull’altra e un numero imprecisato di catinelle di plastica e di metallo. Al nostro arrivo compare correndo una donna, che trascina fuori da un’abitazione qualche altra borsa. Il tassista scende e carica i bagagli. Tutti. Non ci stanno, ma lui li carica lo stesso: portabagagli aperto e via. La signora sale davanti e il tassista e la donna le stipano in braccio e tra le gambe qualche altro collo.

Si riparte. Questa volta nella direzione della strada in cui la maman attendeva e che si trova – esattamente – in senso opposto alla direzione verso la quale stavamo procedendo prima di raccoglierla.
Il tassista guida tranquillo. Scarica la maman con le sue masserizie, per rimpiazzarla dopo poco con un’anziana che – a giudicare dalla mole dei bagagli – sta traslocando.
Quando decide infine di scaricarci a casa è passata oltre un’ora e mezza.
E’ quasi l’alba.

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Arte4 febbraio 2013

La vita svelata, foto di Mario Camonico

La_Vita_Svelata_Mario_Camonico

La Vita Svelata

Procedo a tentoni.
Il velo che mi circonda fa parte di me: mi protegge e mi copre.
Sento la garza sottile solleticare la mia pelle.
Quando respiro le pieghe sottili che mi coprono il volto vibrano in sintonia con i miei polmoni.
La vita è tutto intorno.

Oppure è Dentro?

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La_Vita_Svelata_foto_Mario_Camonico

Riposo

Al riparo dal suono e dallo stimolo
gioco con parti di me che cerco di conoscere
avvolta nell’abbraccio delicato di mani che non mi appartengono.

Si sta bene qui.

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La_Vita_Svelata_foto_Mario_Camonico_Casa

Casa

Oltre la vita che conosci:
quella dove le mani possono toccare
e la pelle può soffrire.
Non cercare di raggiungermi.
Io sono a casa.
___________________

Revealed Life by Mario Camonico
Bassano del Grappa, Caffé Nazionale, Via Bellavitis
4 febbraio – 31 marzo 2013
lun. – ven. 8.00 – 20.00
sab. 8.00 – 13.00
info: +39 340 580.25.31

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Scrittura30 gennaio 2013

In questa luce, di Daniele Del Giudice (Einaudi) martedì 29 gennaio in libreria

Condivido questo incipit del nuovo libro di Daniele Del Giudice, uscito in libreria martedì scorso 29 gennaio, giunto a me in anteprima attraverso le meravigliose vie degli amanti della scrittura.
Leggendolo ho provato l’invidia innamorata di chi ci prova. A scrivere.
Invidia e piacere.
Invidia e amore.
Sentimenti ossimori che forse gli scrittori possono comprendere.
Se ne fossi capace l’avrei scritto proprio così, parolaperparola.
Daniele Del Giudice, In questa luce, Einaudi
“Eccomi qui, davanti al foglio bianco. Quante volte,dalla prima? Quante volte ancora, fino all’ultima? Non son balle, scrivere è difficile. Per tutti. Si è soli, dopo le chiacchiere, le discussioni, gli incontri, le letture. Si è soli e fa fatica. È stato sempre un mio vanto: sí, va bene, gli altri sono disposti a seguirti nel parlare, nell’incontrarsi, nel perdere tempo. Quanti poi, però, si sanno mettere davanti alla tastiera ed «esprimere»? Cioè ricostruire, sistemare,intuire, analizzare, sintetizzare, trovare un’immagine che faccia di carne il ragionamento ecc. ecc. Si è soli. Fa fatica e fa paura. Si prende tempo. Certe volte, la notte, scrivevo fino a tardi un pezzo, una recensione o un elzeviro di terza pagina. Verso le due pensavo che avrei dovuto dormire, e andavo a letto. Salivo, e trovavo mia moglie addormentata. Avevo voglia di abbracciarla, e di farmi proteggere. Piú l’articolo era importante e piú ero teso. Non mi riusciva che un angoscioso dormiveglia, col pensiero fisso di dovermi alzare presto, alle cinque o alle sei per finire il pezzo. E ogni tanto mi risvegliavo, sperduto e indifeso, e mentre rimasticavo frasi appena scritte mi chiedevo: ma sono io quello che domani mattina… No,non sono capace. Non sono io. Era davvero un momento di destrutturazione e di paura. Poi l’alba: e nel lasciare il letto caldo un ultimo sguardo a mia moglie ancora addormentata. Un po’ di invidia. La tentazione di mandare tutto affanculo e abbracciarmi a lei. Infine, la discesa nello studio. Riprendere il periodo interrotto poche ore prima. Un attimo di incertezza, come quando l’aereo si stacca da terra, una sospensione nebulosa… e via, la scrittura spinge su, dentro i carrelli. Anche stavolta è andata. Chissà perché ti racconto queste cose. Non mi ricordo se te le ho mai dette. Quante cose non ti ho detto di me. E quante cose non ti ho chiesto di te. Avrei dovuto dirti, per esempio, quanto mi piace e dispiace questo mio mestiere, che non è un mestiere. Ne parleremo in un altro amore. Nel frattempo, che sollievo riconoscersi finalmente fragili!”
[Daniele Del Giudice, In questa luce, Einaudi]

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Scrittura19 gennaio 2013

In tee scoasse (Simple Customized Optimized Analytic Super Search Engine)

Recupero il sacchetto di plastica dal secchio e ne rovescio il contenuto sui fogli di giornale stesi in terrazza. Infilo i guanti di gomma e mi accuccio sui talloni per rovistare in quell’ammasso umido. Mi vengono i conati, ma tengo duro.
Frugo tra bucce di patata e fondi di caffè, cicche e mozziconi, resti di cibo e cartacce. Ieri sera risotto e purée – accidenti! – e anche frittata.
Mi alzo a fare una sosta per respirare, sennò vomito. Inspiro, espiro, e mi rituffo nelle scoasse. Troppa fretta non aiuta: rischio di trovare un bel niente. Procedo con rigore scientifico.
Infilo decisa le mani nel mucchio, facendomi largo tra gusci d’uovo e tovaglioli di carta bagnaticci.

Lampo di dolore. Qualcosa ha forato la gomma del guanto bucandomi il dito, proprio sotto l’unghia dell’indice: stuzzicadenti smozzicato, ma ancora aguzzo.
Sosta obbligata per verificare l’entità del danno.
Sfilo il guanto destro e mi guardo l’unghia sanguinante. Domino l’istinto di succhiarla: entro in cucina e, mentre sciacquo la mano sotto il getto d’acqua, vedo con la coda dell’occhio la Nana che si alza dalla cuccia per trotterellare allegra verso il pattume. Mollo lì le operazioni di cura e disinfezione e la inseguo, riuscendo a placcarla un istante prima che si lanci con entusiasmo canino in mezzo ai rifiuti.
Chiusa l’offessissima Nana in camera, incerotto il dito e torno in cucina, dove il rubinetto rimasto aperto ha fatto traboccare il lavello, allagando la stanza. Dopo aver asciugato il pavimento, stramaledicendo cani e stuzzicadenti, torno alla mia priorità: ravanare nella spazzatura.


© foto by Marcello DR – http://www.flickr.com/photos/10944542@N06/

Rimetto i guanti e aggiungo altri fogli di giornale, sparpagliandoci sopra con metodo l’immondizia. L’odore è acre: arrivano le mosche a farmi compagnia. Procedo con cautela, casomai ci fossero altre insidie in agguato.
Scorze di gorgonzola, delizioso! bustine di the, bioccoli lanosi di pelo di cane. Attenzione… cocci! Maurizio deve aver rotto qualcosa a mia insaputa. Scartoccio fazzoletti di carta e apro una ad una, svolgendole con pazienza, tante minute pallottole di stagnola.
Gocce di sudore mi colano sugli occhi. Con il dorso della mano strofino il naso che prude. Per non fermarmi a soffiarlo reprimo lo sternuto, arricciando le narici. Le mosche ronzano, Nana abbaia, indignata per la reclusione, i giornali – fradici di liquidi organici – si strappano.

Pausa. Rientro in casa e caccio la testa sotto il rubinetto.
Questo è un lavoro da fare con il fresco.

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