Viaggi10 febbraio 2013

Afro taxi driver

Sono le tre del mattino: Sandro ed io stiamo uscendo da Les Bambous, dopo il concerto di musica afro e cerchiamo un taxi. Ne arriva uno che scarica tre signori ubriachi e fa salire noi, ripartendo mentre loro cercano di introdursi nell’abitacolo, infilando testa, spalle e braccia nel finestrino per offrirci della birra.
Nell’auto siamo in quattro: Sandro, io, il tassista ed un signore che inizia la conversazione di rito: “Ca va? Français?… Espagnols?… ah! Italiens!… Italiano, como va? como stai?”
Appurato che siamo italiani e alloggiamo all’associazione Siraba, ci aggiorna sulle sue conoscenze in seno all’organizzazione. Sul suo viso affiora un lieve disappunto nello scoprire che quelli che conosco io non sono quelli che conosce lui. Parla, parla, parla. Il tassista guida in silenzio. Si ferma a caricare un altro tizio e scarica il conversatore ad una stazione di servizio.
Riparte. Dopo un po’ frena di colpo e carica due signore in abiti succinti. Riparte. Gira a destra, a sinistra, a destra. Gira in tondo. Strade sterrate, polvere. Gira a destra, a sinistra. Sembra di stare sempre allo stesso punto e in effetti, dopo un po’ ci ritroviamo di fronte a Les Bambous, da cui eravamo usciti mezz’ora prima. Le signore sono arrivate. Il tassista riparte. Non torna indietro. Prosegue e continua a girare a destra e a sinistra in questa città fatta di tanti settori tagliati da strade. Alcune asfaltate. Poche. La maggioranza sono piste di sabbia, polvere e spazzatura, che separano una fila di case dall’altra.


© foto by Marcell Claassen – http://www.flickr.com/photos/marcell_claassen/

In auto siamo sempre in quattro: Sandro, io, il tizio ed il tassista, che ora si ferma a caricare una ragazzetta con due fagotti. Dopo un po’ il tizio scende. Il tassista cambia direzione e si inoltra nel nulla buio di un quartiere che potrebbe essere situato in qualunque punto cardinale della città. Buio totale. Buche profonde. Procediamo a sobbalzi e svoltiamo a sinistra, costeggiando un muro alto, color fango. Sempre buio, molto buio. Nemmeno le case sono illuminate: ci fermiamo in un vicolo più buio degli altri. Il tassista spegne i fari prima di arrestare il motore e in quegli attimi di nero assoluto la ragazzetta scende e sparisce in una casa buia, con i suoi fagotti.

Ripartiamo, proseguendo in linea retta finché, sobbalzando, ci ritroviamo su una strada asfaltata. Viaggiamo spediti. “Vedrai che ora ci porta a casa” sussurro a Sandro.
Stiamo procedendo da qualche minuto nella medesima direzione, quando il conducente frena, inchiodando il taxi nel bel mezzo di un incrocio. Non ha lo specchietto: si volta per fare marcia indietro e, sorridendo, ne approfitta per dirci: “Client!”
Marcia indietro e ardita svolta a sinistra contromano.

Il “cliente” è una maman grassa, seduta su tre sacchi di plastica, stracolmi di qualcosa. E’ vestita a festa: pagne giallo e blu e un bel foulard bianco e azzurro. Intorno a lei sono disposti i bagagli, in ranghi ordinati: due fagotti di tela, tre secchi di plastica, una cesta, alcune conche impilate una sull’altra e un numero imprecisato di catinelle di plastica e di metallo. Al nostro arrivo compare correndo una donna, che trascina fuori da un’abitazione qualche altra borsa. Il tassista scende e carica i bagagli. Tutti. Non ci stanno, ma lui li carica lo stesso: portabagagli aperto e via. La signora sale davanti e il tassista e la donna le stipano in braccio e tra le gambe qualche altro collo.

Si riparte. Questa volta nella direzione della strada in cui la maman attendeva e che si trova – esattamente – in senso opposto alla direzione verso la quale stavamo procedendo prima di raccoglierla.
Il tassista guida tranquillo. Scarica la maman con le sue masserizie, per rimpiazzarla dopo poco con un’anziana che – a giudicare dalla mole dei bagagli – sta traslocando.
Quando decide infine di scaricarci a casa è passata oltre un’ora e mezza.
E’ quasi l’alba.

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