Scrittura13 gennaio 2013

Ma… poi… non so

Guardo la schiena e la vedo alta come un muro. Marco sta seduto sul bordo del letto – la testa bassa – e guarda per terra. Mi volto, aggrovigliandomi nelle lenzuola stropicciate e umide e stiro le gambe, scrollandomi dal torpore del sonno interrotto.
La luce sul comodino di Marco illumina la sveglia: sono le tre.
Muovendomi ho svegliato Neve, che uggiola piano e si risistema ai miei piedi. Orso invece è sveglio e agita la coda, che sbatte contro il letto con cadenza regolare. I suoi occhi cercano quelli di Marco e il naso umido e rossiccio si alza a fiutare qualcosa.

La schiena si muove al ritmo affannoso del respiro, mentre le mani poggiano sui bordi del letto e le braccia si tendono nello sforzo di reggere il busto e di dare la spinta al resto del corpo per alzarsi. Tra poco andrà in bagno, strascicando i piedi e cercando sostegno sul muro e sui mobili: camminerà piano, seguito da Orso che continuerà a guardarlo con amore interrogativo, speranzoso che i movimenti preludano ad un’uscita imprevista, anche se ormai, da mesi, le uscite si sono fatte sempre più rare e più brevi. Orso lo segue, mentre io fingo di dormire. Marco, concentrato sul suo malessere, non si è accorto di avermi svegliato o non gli importa e io ne approfitto per raggomitolarmi in silenzio.

Mi sono innervosita: sento il battito del cuore che mi pulsa nell’orecchio appoggiato al cuscino, la luce mi da fastidio, ma se la spengo Marco accenderà quella in corridoio e imprecherà sottovoce, ma abbastanza forte da farsi sentire. Da quando si è ammalato abbiamo smesso di dirci le cose. Parlare… parlare si parla: comunicazioni di servizio. Come stai, quando torni, che ore sono, cosa ti ha detto il dottore, che si mangia oggi, cosa ti serve in farmacia. Frasi neutre, utili per evitarne altre.

Come sta, lo so: sta male. Giorno per giorno gli si scavano le guance e le parole che escono a fatica dalle sue labbra sono pronunciate con un tono sommesso e incazzato. Il suo corpo, da solido è diventato tremolante: la pelle pallida e gialla, i movimenti incerti, ma la cosa peggiore è quella bavetta biancastra che gli affiora agli angoli della bocca quando respira e della quale non si rende conto.
Nel letto la distanza tra i nostri corpi è segnata dalle schiene che si voltano l’una contro l’altra. Lui si gira per trovare sollievo ed io per non sentire il suo sudore e il suo calore febbricitante.

Quando non ci sarà più come sarà? Forse mi sentirò in colpa per gli atti mancati e i pensieri stizziti, ma… poi… non so…

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Scrittura16 dicembre 2012

La tasca

La lampadina all’esterno dell’imbarcadero diffonde un chiarore giallastro, reso inutile dalla luce dell’alba. L’ombra del ragazzo con le mani affondate nelle tasche del giubbotto si allunga sul pavimento. Accanto a lui, appoggiato al vetro, un ragazzo riccio, con il naso sprofondato nel bavero del piumino, si guarda la punta degli scarponi. Ai suoi piedi c’è una sacca di tela impermeabile, blu e bianca.


© foto by Roberto Ferrucci – http://www.robertoferrucci.com/wordpress/

Ogni giorno la stessa menata – sospira il ragazzo riccio fissando il punto da cui comparirà il vaporetto – sarà pieno di gente, non la sopporto, la gente, facce livide di sonno e fiati puzzolenti. E poi un’altra giornata a sentir sbraitare il capo cantiere.
Quando cambierà? si chiede, incassando il collo tra le spalle per proteggersi dal vento. Non cambierà, ovvio. Non può cambiare, devo lavorare, ho bisogno dei soldi, anche se non mi bastano mai.
Tira su con il naso e la mano destra, nella tasca, rovista per cercare il leggero involucro di stagnola ripiegata. Lo stringe e il contatto lo rassicura.
Lo zaino del coetaneo vicino a lui attira il suo sguardo: è rosso, con le stringhe blu.
Quando andavo a scuola il mio era nero, ricorda, la scuola, che rottura! meno male che è finita. Ero sempre al verde, non che adesso sia diverso. Con quello che guadagni tu c’è chi ci mantiene una famiglia – sente sua madre che lo rimprovera, lamentosa, agitandogli sotto il naso l’estratto conto della banca. Scuote la testa e la mano allenta la presa sulla stagnola. Con la mano sinistra fruga nell’altra tasca, ne estrae un fazzoletto e ci si soffia forte il naso.
Dai, muoviti maledizione, dice incitando il vaporetto in arrivo, muoviti che se arrivo prima del capo vado al bar: un caffè al volo e mi fiondo nel cesso. La mano nella tasca stringe la stagnola.

“Tronchetto, Piazzale Roma, Ferroviaaa, attenzione al passo”.
All’urto del battello contro la piattaforma, barcolla. Raccoglie la sacca, sale sul vaporetto, si rintana in un angolo, vicino alla cabina del pilota, aggrotta la fronte e tira su con il naso, rituffando la mano in tasca.
Le dita brancolano nella tasca vuota e si infilano in un buco della fodera.
Serra i denti e le nocche scrocchiano, mentre stringe il pugno. Ficca la mano sinistra nell’altra tasca estraendone un fazzoletto di carta appallottolato. Di tasca gli cade un guanto di lana blu. Lo raccoglie di scatto e lo scuote. Spiana il fazzoletto, lo scuote, lo riappallottola, lo sgualcisce.
Incurante del naso che gli sgocciola, getta il fazzoletto in acqua e bestemmia sottovoce.

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Scrittura8 dicembre 2012

Lei, lui, bacio

Lei è così grassa che malgrado la giovane età respira affannosamente, mentre le si diffonde intorno un lezzo di brodo e aglio. Non guarda le persone ma, con il placido sguardo da mucca perso nel vuoto, si limita a spostare gli occhi e, come una gonfia ruminante passa allo scanner ciò che la circonda, in cerca di qualcosa da brucare.
Il suo abbigliamento è quello tipico delle depresse che nutrono il loro bisogno con pizzette e patatine: pantaloni della tuta con elastico in vita, maglietta informe, felpa blu con cappuccio, sciarpetta rosa drappeggiata sulle forme.
E’ seduta, ma non sembra stia comoda. Per chi pratica con costanza l’attività dell’incursione notturna nel frigo, anche stare seduta su una sedia può diventare uno sport estremo. Accavalla le gambone e picchietta nervosamente per terra con un piedino calzato di scarpa da ginnastica nera, con lacci allentati, segno che l’operazione chiusura stringhe, resa ardua dalla massa critica dello zampetto di porco, non è stata portata a termine con successo.
Tra le mani salsicciotte stringe una borsa di tela rosa, fatta a sacco. La tiene in grembo come fosse uno scudo, ciancicandola.
Ha un viso regolare, pelle liscia e una bocca di quelle che fanno perdere il lume della ragione ai maschi ossessionati da attività ludico ricreative di tipo orale. I capelli sono biondi e lucenti, appena stirati con la piastra.


© foto by Spidermac – http://www.flickr.com/photos/spidermac/

Lui è inquieto. Si è incuneato in un angolo della sala d’attesa, e da lì gira lo sguardo intorno, massaggiandosi il mento e arricciando il naso come un cane che fiuta. Dimostra una trentina d’anni, ma ha già la pancetta. La calvizie incipiente gli conferisce un’aria da frate, accentuata dal vezzo di incrociare le manine grassocce sull’adipe. Indossa terrificanti calzoncini marrone a metà polpaccio e sandaletti con calzino corto.
I suoi occhi azzurrissimi e trasparenti fissano la cicciona, che accenna un sorriso e sporge in fuori le labbra, ammiccante.

Incoraggiato, lui si avvicina e le si siede accanto. Si sporge verso di lei e le dice qualcosa. Lei sussulta e ridacchia, cominciando a frugare nella sacca con la testa abbassata e una ciocca di capelli che le spiove sul viso.
Lui si fa più vicino, sussurrandole qualcosa all’orecchio.
Lei ride gettando indietro la testa.
Si volta verso di lui e le loro fronti quasi si sfiorano, ma lei si scosta e continua a rovistare nella borsa.

Mentre lui cerca di cingerle le spalle, la mano di lei riemerge dalla sacca stringendo un bacio perugina molliccio e il volto le si illumina di un sorriso beato.

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Scrittura2 dicembre 2012

Sto guardando questa cosa e…

Devo fare in fretta, la messa sta per iniziare e a me piace la puntualità.
Il ginocchio scricchiola. Mi siedo sul sellino della bicicletta e con cautela sposto il peso sulla gamba destra, quella più malandata. Pedalo, regolando l’andatura sul mio ansimare così quando comincio ad andare in apnea rallento. Finiti i tempi in cui “si correva la cavallina”.
L’afa contribuisce all’affanno. Stringo le manopole del manubrio con dita appiccicose senza distogliere lo sguardo dalla strada. Qua si deve stare sempre attenti a dove si mettono i piedi. E in bicicletta ancora di più: attenti ai camion, attenti alle macchine, attenti ai pedoni incauti che ti camminano sulla pista ciclabile. Attentissimi! non si sa mai da dove ti arriva il pericolo! mica come quand’ero giovane…
Mi concentro sulla pista per evitare le buche, ma non è una buca quella che ad un tratto mi fa sobbalzare. È uno strano oggetto, abbandonato per terra, sotto un platano.

Cosa sarà mai?

Rallento. Sento fischiare il respiro, mentre il cuore mi rimbomba nei timpani. Sbatto le palpebre per mettere a fuoco questa cosa colorata: un bastone? Strano… un bastone color rosa, anzi forse butta un po’ sull’arancione. Mi avvicino per vedere meglio.
Oddio! E se fosse un’arma? Un proiettile? La forma è quella.
Guardo meglio: l’oggetto ha una specie di pulsante, come quello dell’aggeggio – regalatomi da mia figlia – che uso per frullare il minestrone.
Bottone? Detonatore! E se fosse una bomba? Una bomba a orologeria? Se ne sentono tante, di questi tempi… con tutti questi extracomunitari terroristi che nascondono le armi nelle moschee.

Chiamo il vigile che sta davanti alla chiesa per far attraversare i pedoni e, dopo avergli brevemente spiegato che si tratta di un’emergenza, lo accompagno al luogo del ritrovamento sospetto.
Mi segue con le sopracciglia corrucciate, frugandosi in tasca per cercare il cellulare.
“Ecco!” indico la cosa, tenendomi a prudente distanza, ma resto nei paraggi. Quando arriveranno i carabinieri e la polizia voglio esserci. La bomba l’ho trovata io e la tivù dovrà per forza intervistarmi. Magari passano il servizio già oggi, al tiggì di mezzogiorno.

Un ronzìo e una risata interrompono le mie elucubrazioni. Il vigile impugna la bomba e la agita sghignazzando.
“Ma è matto? Stia attento che ci fa saltare per aria!” gli urlo.
“Signora, ma non l’ha mai visto un vibratore?”

“Io? No. Ai miei tempi per schiacciare la verdura si usava il setaccio. Vorrà dire che  chiederò a mia figlia di regalarmene uno per Natale.”

[Fonte: http://www.today.it/commenti/articoli/bomba-vibratore-montebelluna-nonna/16823]

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Scrittura24 novembre 2012

Salita discesa

Sento Margherita piangere, ma non ho voglia di muovermi per andarla a cercare. Nella casa buia, la luce livida di questa ennesima eterna giornata illumina i resti dell’altra vita: quella di “prima della salita dell’acqua”.
Strizzo gli occhi per sbirciare, attraverso i vetri incrinati e offuscati dalle gocce di salsedine, lo scenario che conosco bene. Osservo l’acqua, adesso color verde intenso, che quel giorno mugghiava infuriata e opaca di fango, mentre noi guardavamo – impotenti e nostro malgrado affascinati dal terrore – lo spettacolo che eravamo certi stesse per ucciderci.
Il desiderio di uscire e scendere sulla riva mi formicola sotto pelle, ma ho paura.
Margherita piange: avrà fame, o sete. Si sarà pisciata o cacata addosso, o semplicemente avrà voglia di frignare o capricciare, come fanno tutti i “piccoli alien”. Non mi piacciono i bambini. Non ricordo mi siano mai piaciuti, nemmeno quand’ero bambina pure io. Concorrenza sleale, sempre pronta a gareggiare per una coccola o un sorriso, vulnerabilmente concentrata su di sé. Li guardavo, con la diffidenza di chi non capisce, tenendomene alla larga. Ma ora mi trovo qui, con questo piccolo mostro, così carino, che non mi dà tregua. E non posso ignorarlo: devo dimenticarmi di me e occuparmi di lei. Trovarla e portarla di sopra, prima che l’acqua ricominci a salire.

“Sie ore a cresse, sie ore a caea”

“Sie ore a cresse, sie ore a caea”

Deglutisco a fatica. E’ il bisogno di bere che mi spinge ad alzarmi, anche se non ne ho voglia. La casa è buia, ma la conosco così bene che mi ci muovo con sicurezza. Cerco a tentoni la candela e i fiammiferi, rimpiangendo gli accendini, ormai introvabili. Sfrego il fiammifero umido sulla striscia ruvida della scatola, trattenendo il fiato e sperando si accenda. Quando dalla capocchia si sprigiona la fiammella luccicante sospiro e accendo la candela, poi comincio a scendere le scale con circospezione, saggiando con la punta del piede gli scalini sbrecciati, prima di poggiarvi il peso.
Margherita continua a frignare.

“Sie ore a cresse, sie ore a caea”

Si diceva così a Venezia, una volta: quando alla salita seguiva la discesa.
Ma era prima. Prima che l’acqua si portasse via i ricordi.
Margherita non ne ha, di ricordi, forse solo qualche ombra. Il suo pianto è concreto, mosso dalla fame, dal freddo, dal bisogno. Io, invece, sono ricca di memoria e povera di sentimenti. Occuparmi di lei è uno sforzo costante, un lavoro che mi ordino di eseguire, attendendo che ciò che deve accadere accada.

“Sie ore a cresse, sie ore a caea”

Forse non calerà.

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