Scrittura, WEB7 settembre 2017

Il Network Marketing e la punta dell’Iceberg

Il valore di una #BellaStoria vera.

Se sei anche tu una vittima di The Secret e passi ore della tua giornata a scrivere e riscrivere desideri assurdi e irrealizzabili, se ripeti come un mantra frasi senza senso sperando che, per magia, alla bella età di 40 anni diventerai una rock star, senza nemmeno saper fare il giro blues del chitarrista da spiaggia, allora forse è il momento di svegliarsi e andare a lavorare.

No, non intendo in fabbrica o ufficio, intendo a lavorare su di te.

Rifatti il look, ma quello interiore
Il lavoro su sé stessi è di gran moda.
La buona notizia è che non lo si fa fingendo che tutto vada bene nel migliore dei mondi possibili. Lo si fa guardando con coraggio a ciò che si è e applicando il principio di realtà.
Per anni ho pensato che lo si facesse per il benessere psicofisico personale.
Per lo meno questa era la motivazione che mi ha spinto a ricercare e sperimentare tecniche e percorsi diversi tra loro, ma che portavano sempre alla conoscenza di me stessa, una conoscenza il più completa possibile, nella consapevolezza che, comunque, il mio piccolo nocciolo ignoto era bene che restasse intatto.

Godersi la vita o godersi i soldi?
Sono un po’ nauseata da come il lavoro su se stessi venga banalizzato e svenduto come espediente per fare soldi e raggiungere il successo.
Possibile che la misura del successo sia la quantità di denaro guadagnata o la marca dell’auto? Forse sì, ma per me non è così.
Il lavoro su di sé per me rappresenta ancora la chiave della felicità e per ciascuno di noi la felicità si riveste di colori particolari e sfumature uniche.
La strada da percorrere è chiara: voglio continuare a trasformarmi ed evolvere, cercando nuovi modi per fare affari (la parola “business” mi dà il voltastomaco), perseguendo modalità coscienziose per produrre ricchezza e non solo soldi, perché la ricchezza è composta da tante minute sfaccettature che molto hanno a che vedere con la qualità della vita.
Ricercare la bellezza, recuperare tempo libero, coltivare il piacere, invece di affogare nel lavoro fine a se stesso.

Il grande inganno della finta libertà
Con un po’ di tristezza vedo molte persone, licenziate dal posto fisso e di fatto scacciate dal mercato del lavoro, che vengono manipolate allo scopo di convincerle che lavorare in proprio sia la felicità, tacendo loro gli inevitabili problemi con cui si dovranno confrontare.
La libertà è una scelta, non può essere il ripiego perché ti hanno licenziato.
E’ inutile cercare di convincersi che si fa il lavoro più bello del mondo se, sotto sotto, un piccolo tarlo continua a roderci il cervello, sussurrandoci che moriremo di fame.
Licenziata per ben due volte in 5 anni, sbattuta violentemente fuori dal mercato del lavoro all’età di oltre 50 anni, conosco bene la paura, il dolore, il senso di inutilità che ti attanaglia alla gola.
Adesso lavoro per me: come dico spesso “sono libera di lavorare”, ma se fossi libera davvero credo smetterei di lavorare del tutto.
Questà è la verità.
A chi insegue tempo libero e successo, ma passa le giornate al computer, o peggio, si porta ovunque gli strumenti di lavoro, suggerisco di riflettere se valeva la pena di licenziarsi per essere liberi, per ritrovarsi poi incatenati a un lavoro senza certezze, con orari ancora più massacranti.
Queste sono domande opportune, perché quando si sceglie di lavorare per sé e non per un padrone, bisogna avere chiaro cosa significa.
Vuol dire disciplina, obiettivi precisi, costanza.
Vuol dire conoscersi molto bene e individuare i propri limiti e le proprie potenzialità.

Il lavoro interiore e la discesa agli inferi
Con il lavoro su di sé si scende in quel sottosuolo che alimenta immaginazione e memoria, per attingere forza e verità.
Un sottosuolo dove nascono le paure e, a volte, alberga il dolore.
Ecco perché non riesco a perdonare chi diffonde facili teorie sulle potenzialità, i talenti e il successo.
In questi anni hanno fatto più danni
The Secret e La Chiave che il gas nervino.
Forse è vero: quando il dito indica la luna, lo stolto guarda il dito, ma non sempre lo stolto è colpevole.
Lo stolto è innocente, perché inconsapevole, mentre la responsabilità di averlo ingannato va a chi non ha fatto attenzione alle parole incaute con cui ha manipolato le persone.
Come ci si difende dai serpenti incantatori?
Con il lavoro personale, la formazione continua, non solo quella tecnica (indispensabile), ma anche quella che ci porta a conoscere ciò che si cela dentro di noi, nella parte più profonda.


A cosa serve il lavoro interiore?

1. A preservare il nostro fegato
Sul versante professionale serve a non farsi schizzare l’embolo quando qualcuno ci mette a dura prova sul lavoro; a non attaccare al muro il collega mannaro, a non sentirsi invalidati dalle sarcastiche osservazioni del proprio capo frustrato, a restare impassibili quando i clienti ci chiedono lo sconto e a rifiutarlo con un sorriso, a recuperare crediti e insoluti senza litigare e andare in causa.
Quando conosciamo bene i sottili meccanismi che ci muovono e le leve delicate con cui il prossimo può farci reagire in modo abnorme, diventiamo potenti.
Di fatto il nostro unico peggior sabotatore siamo noi, ma siamo anche il nostro miglior alleato.

2. A raccontare la nostra Bella Storia
Il lavoro interiore serve a scavare nelle profondità della memoria e dei ricordi antichi per estrarre #LaBellaStoria da raccontare al nostro pubblico: la storia dei limiti e delle potenzialità che ci diversificano da tutti gli altri, le passioni e i talenti, i giochi preferiti, i sogni da realizzare, gli affetti e le emozioni.
I concorrenti potranno essere molto più bravi di noi o molto peggiori, ma per il nostro pubblico e i nostri clienti noi saremo unici.

3. A fare Network Marketing
Il lavoro interiore serve per realizzare la modalità di concludere affari, più interessante e più virtuosa che conosco: il network marketing.
Per creare relazioni e legami con la nostra rete serve una storia da raccontare ma, come dice Eric Worre, a nessuno interessa sapere quanto sei figo, ricco e di successo, ma a molti interessa sapere come hai fatto a diventarlo, trasformando la tua vita da schiavo in un’esperienza di ricerca e pratica dei tuoi valori, insomma in una vita piena.

Ma perché per qualcuno non funziona?
A questo punto una domanda sorge spontanea: perché non per tutti la narrazione della storia e il network marketing funzionano?
La risposta è semplice: perché molti vogliono raccontare solo la punta dell’iceberg.
Hanno paura a tuffarsi nell’acqua fredda e profonda, che diventa buia negli abissi.
Preferiscono restare a galleggiare in superficie, ignorando che tanto più ampia è la massa sommersa, tanto maggiore sarà la parte visibile.
Trascurano di esplorare cosa c’è sotto e indeboliscono la loro storia, che si scioglie come neve al sole.
La potenza fa paura, ma se la domini cavalcherai il drago.

No #BellaStoria
No #NetworkMarketing

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WEB28 luglio 2017

Biancaneve e i 7 Social

Rassegna fiabesca sulle insidie del social media marketing, ovvero come e qualmente una svampita come Biancaneve è impossibile che ne esca viva

Ho sempre pensato che Biancaneve non fosse granché intelligente, ma di sicuro era una che aveva culo. Scatena le ire della matrigna ossessionata dall’immagine, che pensa di vincere eliminando i competitors e assolda un killer; purtroppo ne trova uno di seconda mano, caratterizzato da un burroso cuore tenero che, al momento di sferrare il colpo fatale, vacilla, risparmiando la vita all’odiata sciacquetta.

Biancaneve erra per un po’ nel bosco, poi piomba in casa e nella vita di 7 poveracci che si fanno il mazzo a lavorare e decide di installarsi da loro, cinguettando canzoni di sanremo. Loro la accolgono di buon grado e, benché lei sia svanita e accetti mele dagli sconosciuti – forse sperando così di incontrare SteveJobs – grazie al loro sostegno prima o poi arriva il presunto epilogo positivo: un cliente sul cavallo bianco arriva da lei che giace – tanto per cambiare – stesa, tramortita e inconsapevole, in una bara di cristallo, ché la trasparente visibilità – si sa – è importante. Lui la bacia e il resto si vuol credere che sia lieto fine.

Biancaneve, ma chi è? Biancaneve è il solito utente dei social, che li usa tutti e non ne conosce nemmeno uno.

Un po’ zoccola, un po’ svanita, salta da uno all’altro senza rendersi conto che SONO DIVERSI. I poveri social fanno il loro dovere meglio che possono e, prima o poi, anche per Biancaneve qualche contatto arriva, ma non sempre si tratta di clienti principeschi.

Io a Biancaneve continuo a preferire Grimilde che, se non altro, facendo il suo onesto lavoro di competitor, contribuisce a migliorare il mercato e poi è sempre impegnata a farsi domande guardandosi allo specchio. Sarà anche un po’ egocentrica, ma almeno si interroga sui massimi sistemi, mentre Biancaneve o dorme e attende che il cliente si accorga di lei, oppure si affida ai nani, senza chiedersi quale sarà il prezzo da pagare se si relaziona con loro con leggerezza.

Di questi nanetti industriosi ho una mia percezione, che sarà certamente di parte, ma in fondo rende l’idea di come un utente normodotato si relazioni con loro. Per le strategie superiori rivolgersi agli esperti.

1.   LinkeDotto lo spocchioso, anche se non ti sta simpatico ti conviene considerarlo

Di primo acchito è antipatico. Non è amichevole, si atteggia a super competente, usa un linguaggio tutto suo, parla inglese anche quando si potrebbe benissimo parlare italiano, non fa nulla per renderti la vita facile. Sfoggia un’arietta spocchiosa da super intenditore e per capire come ragiona ci vogliono i maghi come Luca Bozzato.

Luca ti spiega come trattarlo, in modo che anche tu, un giorno, riesca a postare un contenuto su Pulse, perché LinkeDotto ti fa sudare sette camicie: una volta dovevi passare all’inglese, poi chiedere per favore, poi provare a postare e, per un po’, ha funzionato. Poi il subdolo nanetto ha finto di permetterti di postare su Pulse senza dover saltabeccare da una lingua all’altra, ma in realtà Pulse non funzionava più. Ti devi avvicinare sempre con umile reverenza, inchinarti e pregare che l’editor formatti il testo come vuoi tu.

A LinkeDotto non va che si dica che un contenuto “piace”: il piacere qui è bandito, al massimo puoi “consigliare”, ma attento! Se commetti errori LinkeDotto, come tutti i saccenti perfezionisti, non perdona. Se consigli un contenuto a caso, LinkeDotto ne terrà conto e la tua bacheca verrà invasa da altre stronzate. Insomma, bada a come parli, occhio a come ti muovi, meglio chiedere aiuto. Lui ogni tanto qualche sforzo per sembrare umano come i suoi fratelli lo fa, ma gli viene malissimo. Quando lo incontri ti passa la voglia di stare in sua compagnia, perché la fatica la devi sempre fare tu, però…

Però – accidenti a lui – LinkeDotto, forse proprio perché se la tira, ha un mucchio di gente che va alle sue feste. Lui è esigente e un po’ all’antica: non ti presentare in canotta e ciabatte, perché sennò non ti farà parlare con gli invitati che contano. Ora che è stato corteggiato e conquistato da microsoft se la tira anche di più e ti costringe a riscrivere il Riepilogo se vuoi che i tuoi dati di contatto siano visibili nelle prime righe dei risultati; i progetti invece li ha fatti sparire, ma il perché non è dato di saperlo. LinkeDotto sta nell’ombra, pronto a sanzionare i tuoi errori di comunicazione e a scrutare chi fa passi falsi, ma se ti comporti da bravo ospite ti lascia in pace e finalmente puoi conoscere gente interessante.

Una cosa è certa: prima o poi i cialtroni LinkeDotto li fa fuori. Forse questo è ciò che me lo rende accettabile.

2.   Pisolo Youtubolo, anche se lui schiaccia un pisolino, tu non dormire e ricordati che le descrizioni dei contenuti e le parole chiave funzionano anche qui

Youtubolo sbadiglia e si stende ovunque per fare un sonnellino, come Pisolo. La sua interazione è ridotta ai minimi termini, ma è presente su qualsiasi superficie, che gli permetta di schiacciare un pisolino. Youtubolo si può sdraiare dappertutto, basta copiare incollare il link, di sicuro è indispensabile se vuoi caricare dei video sugli altri social perché è il modo più veloce e leggero per far vedere i contenuti video alle tue reti. Si spaccia per super collegato, ma a me dà sempre l’impressione che i video siano un ottimo modo per “colpire” l’interlocutore senza doversi troppo coinvolgere, si sa “verba volant, scripta manent”. Quando registri il tuo video, se sei un professionista, tieni in pugno l’interlocutore: la potenza dell’immagine, parlante e in movimento, può ipnotizzare chi ti guarda. Tu parli, guidi, conduci e l’altro ascolta, assorbe, segue. Se invece sei un ignobile cialtrone produci video che vanno oltre i 2 minuti, a inquadratura fissa, magari con il tuo letto sfatto alle spalle e il sottofondo musicale di RadioBuea. Quando ancora ero inconsapevole l’ho fatto pure io. Poi ho incontrato i veri professionisti, mi sono innamorata di Youtubolo e ho smesso di produrre video fatti in casa.

Detesto i webinar e i video tutorial, perché non sopporto di dover stare lì ad attendere che un altro decida in che tempi dispensarmi le sue pillole di saggezza. Pratico con soddisfazione le tecniche di lettura veloce e kindle è la mia risorsa preferita: posso leggere 3 libri di 200 pagine in una notte senza annoiarmi, cogliendo il succo del discorso e selezionando velocemente quello che mi serve. Ma Monty Montemagno dice che entro 5 anni la percentuale degli utenti che guarderà solo video aumenterà a dismisura. Credo abbia ragione, perché la pigrizia vince sempre sulla volontà di impegnarsi.

Quindi arrendiamoci all’evidenza: i video sono indispensabili. Se girati da un professionista, meglio. Sennò verremo invasi da faccioni selfie autoprodotti che cianciano di contenuti senza senso, mentre mangiano, stanno in spiaggia, guidano, camminano. L’unico momento di eccitazione in queste produzioni da sfigati lo si ottiene quando, distratti dal telefonino, vanno a sbattere contro un palo o vengono inculati dall’auto che li segue.

In quel momento diventano virali.

3.   Brontolo Facebookolo, nato per il cazzeggio, adesso cambia marcia - forse

A me Facebookolo sta simpatico. Non è complicato, ti sembra di capire subito come prenderlo, si relaziona con tutti, ti permette di dare l’amicizia a cani e porci. Aziende che si spacciano per persone, persone che si nascondono dietro avatar, foto di gattini e cagnetti al posto dell’immagine di profilo, Facebookolo manda giù tutto. L’importante è avere un bel via vai di gente in casa. Quindi è anche pieno di squilibrati che litigano e delirano. Però lo frequento con piacere, perché è semplice. Puoi creare eventi, farti una pagina con facilità, condividere contenuti di tutti i tipi. Facebookolo ha un solo difetto, che rischia di diventare pericoloso: censura contenuti di valore, secondo una logica che capisce solo lui. Le mamme che allattano te le banna perché si vede una tetta e, dal suo punto di vista, sono lesive della morale, ma permette foto di animali maltrattati. Vigila sui tags in modo arbitrario, per cui ti puoi ritrovare con giorni di sospensione per aver taggato persone consenzienti su contenuti di loro interesse, mentre altri ti spammano allegramente taggandoti tre volte al giorno nella foto del dentino del figlio, nel post del Convegno dei nazisti dell’Illinois, nel video fatto in casa della zia Pina che cucina la zuppa di cavolo nero.

Con Facebookolo si deve stare attenti, perché lui riceve in casa chiunque. Si presenta amichevole, ma proprio come fanno molte persone nella vita reale, nasconde delle insidie. Il tono generale in casa sua è quello lamentoso-rabbioso, ma se non ti fai travolgere e sai come prenderlo ti può dare soddisfazione. Nel 2017 sono arrivate tante novità, il profilo video e altre chicche, ma purtroppo Facebookolo ha anche deciso di fare concorrenza al suo fratello serio LinkeDotto e adesso vuole fare business pure lui. In effetti funziona e quindi facciamoci aiutare da qualcuno che ne sa, come Davide Dal Maso

Anche perché ormai molti utenti usano Facebookolo come motore di ricerca. Arrendiamoci.

4.   TwitterEolo va capito e comunque, benché ne abbiano più volte annunciato la fine, è ancora vivo e vegeto

Twitterolo è lieve e potente come uno sternuto. Sintetizza tutta la sua comunicazione in quel breve attimo in cui spara fuori aria concentrata e compressa. 140 goccioline gli sprizzano dal naso e si disperdono nell’etere. E’ contagioso perché quando sternutisce forte e con intenzione, il suo strombazzare viene ripetuto da tanti altri.

Può sembrare malato grave, ma non lo è. Lo hanno dato per spacciato molte volte, annunciandone la fine, ma lui resiste.

Se riesci a capirne il senso i suoi sternuti diventano un’armonia, ma per farlo non hai alternativa: o segui qualcuno di bravo, come Francesca Anzalone, che ti svela tutti i segreti del Digital PR, oppure ti dovrai accontentare di restare lì ad ascoltarlo sternutire, sentendoti emarginato e impotente.

5.   Mammolo Pinterest con il tempo lo apprezzi, se lo prendi per quello che è. Comunque ne puoi sfruttare le caratteristiche per promuoverti

Un timidone. Sensibile a suoni e colori, annaffia fiori, colleziona farfalle, disegni e immagini.

Come tutti i timidi non si presta a grandi conversazioni, va preso così com’è, pieno di buone intenzioni e siccome non è poi malaccio e, se usato con intelligenza ti introduce presso i fratelli più ciarlieri, stare qualche oretta in sua compagnia vale la pena.

6.   GooglongoloPlus il più inutile dei nani – dico io

Di quel ciccione di Googlongolo Plus c’è poco da dire. Tutti abbiamo a che fare con lui, anche se ci sta simpatico come un mal di pancia.

Considerato una necessità, lo subisci quando un’agenzia web ti fa il sito e nella parte social ci caccia dentro Googlongolo d’ufficio. Non si sa perché: non lo sai tu, non lo sa l’agenzia e non lo sa nemmeno lui. Comunque è figlio d’arte e, per compiacere babbo Google o per paura che il fatto di ignorarlo possa scatenare su di noi le ire funeste di Sua Maestà Google l’Onnipotente, ci si adatta a malincuore a tenere un account Google Plus.

Disadorno, segue una logica network egocentrica, in cui tu devi decidere in quali cerchie inserire i contatti, ma la reciprocità non è garantita. Ti costringe a cervellotici ragionamenti per stabilire chi va in quale contenitore e poi ti presenta alla rinfusa qualunque contenuto in una bachecona gigante in cui forse spera che l’abbondanza ti confonda e ti faccia addivenire a più miti consigli nei suoi confronti.

Quando ti ricordi che esiste e torni sulla tua bacheca, ti fa anche sentire in colpa perché sei costretto a prendere nota del fatto che sono passati alcuni mesi dall’ultima volta che ci hai postato dentro qualcosa, ma il fatto che, alla fin fine, i tuoi contatti si comportino proprio come te e il loro ultimo aggiornamento risalga alla caduta dell’Impero romano d’oriente, ti consola un pochettino e ti fa sentire meno solo.

Fai spallucce e torni allegramente a cazzeggiare con Facebookolo.

7.   Instagrammucciolo il più incompreso della rete. Potrebbe dare tanto, ma tutti lo bistrattano

E’ il piccolo, ultimo arrivato. E’ muto e questo lo rende simpatico. Poche parole e molti fatti: immagini in primo piano e solo qualche mugolìo, qui e là.

Certo che tutti quegli hashtag insensati, scritti e disseminati a spaglio nel vano tentativo di acchiappare un po’ di followers ti irritano, ma poi Instagrammucciolo ti sorride con le sue microstorie sdentate e tu ti intenerisci.

I suoi sostenitori lo difendono a spada tratta, affermando che è il social per eccellenza, che è un social visivo, che solo le immagini hanno senso, ma a te resta sempre il dubbio che, se continuano a usarlo in quel modo, dipenda dal fatto che sono degli analfabeti di ritorno, che hanno scordato i bei tempi in cui la maestra insegnava loro a vergare semplici frasi, composte di soggetto, verbo, complemento.

In fondo, però, Instagrammucciolo non ne ha colpa, povera creatura. Lui continua a sorridere e a tentare di ingraziarsi il pubblico facilitando sempre più il compito a chi vuole sentirsi un super fico anche se fa le foto con il telefonino. Ti aiuta in tutti i modi, questo gli va riconosciuto: la foto più sgrausa e schifosa te la lascia trasformare in un capolavoro, grazie ai filtri e alle modifiche incluse nell’app. Ha persino permesso che dal formato quadrato si passasse al rettangolare per facilitare il compito e semplificare la vita anche a quelli che sono incapaci di concentrarsi su un’inquadratura. Benché lui sia prodigo di supporti, c’è sempre qualcuno che posta delle foto di paesaggi alpini con una mucca tagliata a metà, di cui si vede solo il posteriore, oppure una città d’arte con il cassonetto dell’umido, traboccante di rifiuti organici, in primo piano.

Instragrammucciolo sorride e strabuzza gli occhioni, sforna a manetta sofisticate applicazioni, che dovrebbero trasformare persino me in un premio pulitzer, ma malgrado questo viene invaso da orde di sprovveduti dediti all’improvvisazione che fanno stalking al gatto di casa e lo postano, tendono agguati al cane e li postano, si fanno selfie e li postano, mangiano guardando in camera e postano orride foto mentre masticano con vigore, esibendo in primo piano la foglia di lattuga tra i denti, infine chiudono in gloria fotografandosi i piedi, e li postano.

Lui tiene duro e continua a sorridere. Ogni tanto mi viene il dubbio che sia un po’ scemo, ma poi penso che ha reso la fotografia un po’ più democratica e meno supponente e allora lo perdono.

Se vuoi spiccare il volo con il social più incompreso della rete segui Davide Dal Maso

Consiglio per Biancaneve: smetti di cinguettare e cerca di capire come sono fatti i nani, magari, se comprendi come funziona, trovi un Principe vero

AMEN

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Scrittura10 aprile 2017

Marketing Sempliciotto batte Fuffa Marketing: 5 a 0

Oggi parliamo di:

- Cucina semplice
– #Valore e Buon marketing

Grazie alla segnalazione di cari amici che conoscono la mia profonda avversione per i locali fusion e trendy, dove si mangia la carbonara destrutturata che, per il semplice fatto di presentarsi miseramente con uno spaghetto solitario in un angolo del piatto, un cicciolo (non fritto) nell’altro angolo e una non meglio identificata cremina di uova, maltrattate da uno chef sadomaso, nell’ultimo cantuccio, ti viene a costare quanto 10 kili di pasta di grano duro + una pancetta intera + la produzione mensile di un intero pollaio di trenta galline, ho deciso di andare a sperimentare la buona cucina casalinga di una volta in una trattoria milanese come non ne esistono più.
Ci avevo già provato una prima volta, commettendo l’imperdonabile errore di arrivare a destinazione alle 13 e 15, orario in cui il titolare, senza peraltro degnarmi di uno sguardo, mi lasciò sulla porta e, alla mia accorata richiesta di cibo rispose con un grugnito, indicandomi un cartello scritto a mano che riportava la perentoria frase: COMPLETO – CHIUSO.
Incredula guardai la sala, pullulante di clienti.
Alle 13.15 non c’era un buco libero.
Un avventore impietosito mi spiegò che per sperare di riuscire a mangiare si sarebbe dovuti arrivare alle 11 e 30.

Impara a dire qualche NO:
se vali e hai successo i clienti ti desiderano DI PIU’.

La tenacia è la mia miglior dote e, ieri, ci ho riprovato.
Animata dalla determinazione ho telefonato alle 10 per prenotare e mi sono sentita rispondere che le prenotazioni non esistono.
Se arrivi entro le 13 mangi, sennò pazienza.

Partita di buzzo buono per arrivare in tempo mi sono ritrovata a destinazione alle 11 e 30, ma poiché ancora non ci potevo credere che nel 2017 ci fosse qualcuno che si presentava al ristorante a quell’ora, ho temporeggiato.
Alle 11 e 40 ho aperto la porta e la macchina del tempo mi ha traslato nel 1960.

Pavimento a piastrelle bicolori, tavolini quadrati da 4 persone con tovagliette a quadretti rossi e bianchi, mura patinate dal tempo, porte scrostate, una vecchia stufa a legna in ghisa, che amici bene informati giurano essere l’unica forma di riscaldamento esistente nel locale, un bancone dal colore indeterminabile e sedie di ogni tinta, materiale, forma e foggia.

Addetti al servizio il titolare e la di lui sorella (settantenne); in cucina la stessa sorella, che in questa incarnazione ha evidentemente ricevuto il dono dell’ubiquità, più la mamma novantaquattrenne che deve vantare un’ascendenza hunza, altrimenti non si spiega come possa sfornare cibo a velocità ultrasonica per decine di persone.

Allibita conto 80 coperti, ma mi rendo conto che in realtà sono di più, perché l’oste è abilissimo nell’incastrare avventori in ogni spazio disponibile.
Arriva a stiparne 6 in tavoli da 4 e nessuno protesta.
Persino i cani presenti se ne stanno buoni a cuccia e nemmeno osano affacciarsi alla porta della cucina, sempre aperta.
Alcuni tavoli sono situati nella zona cucina-cesso e quando vai alla toilette rischi di abbattere i malcapitati a colpi di porta in faccia.
Il bagno è senza luce elettrica, che comunque non serve, perché il locale apre solo a pranzo.
Però la carta c’è.
Presenza cani più carta igienica in bagno.
La mia personale metrica di attribuzione punti si mette in moto.
Questo posto è ok.

Il valore non è assoluto.
Si stabilisce sulla base delle esigenze e preferenze del TARGET.

Stavolta il titolare, anche se mi lascia per un po’ in purga perché (scoprirò poi) non mi conosce e non sa chi mi ha mandato, decide di farmi mangiare e mi indica un tavolo occupato da una coppia, alla quale, andando dritto al punto, segnala che io mangerò con loro.
Le parole esatte sono: “non penserete mica di avere un tavolo da quattro solo per voi? Qui ci metto altri due, sennò il posto non basta per tutti…” e se ne va.

Affascinata, comincio a riflettere sulla comunicazione, le parole giuste in relazione al target e agli obiettivi di marketing e mi viene da ridere, mentre l’oste sale vertiginosamente nella mia classifica di “comunicatore superfigo”.

I miei compagni di tavolo ed io cominciamo a fare conoscenza.
Sono simpatici.
Aspettiamo, invano, che qualcuno ci caghi, ma nessuno viene a prendere la comanda, benché il signore al tavolo con me provi più volte ad alzare la mano.
Io ormai mi sono arresa e mi godo la scena.

Entra un avventore che, per fortuna, è amico d’infanzia del mio compagno di desco.
Dopo gli abbracci di rito ci spiega l’arcano: nessuno ci considera perché, se vuoi mangiare, devi alzare il culo, prendere il menu, alcuni foglietti e una penna, gentilmente messi a disposizione dal locale, e scriverti la comanda da solo.
Poi, quando lo reputerà opportuno, il personale (cioè il titolare unico) la verrà a prendere.

In quel momento, il mio incauto compagno di tavolo si azzarda a estrarre di tasca il cellulare per fotografare sua moglie, ma viene paralizzato da un urlo belluino, apostrofato in milanese e minacciato di espulsione immediata.
I vicini di tavolo si affrettano a illuminarci sulla regola base del locale: i telefoni cellulari sono VIETATI!
A tavola si mangia e si fa conoscenza, sennò fuori!

E’ ufficiale: mi sono innamorata del titolare e di questo locale aduso alle vecchie eleganti regole della buona educazione.

Medito sul fatto che ci vorrei portare il 90% dei miei amici, che regolarmente redarguisco quando, a tavola con me, anziché considerarmi degna di attenzione, smanettano sulla tastiera.

Una signora sdentata, seduta al tavolo accanto al nostro sentenzia: “qui ci vuole rispetto!” sostenuta da un attempato commensale che rincara la dose e dice, ridendo e indicando l’oste: “vabbé, tanto se non rispetti le regole non c’è problema, lui qui ti taglia la mano”.
Il mio rating “pro trattoria” sale alle stelle.

Il cliente non ha sempre ragione.
Stabilisci le tue regole e impara a farti rispettare.

Mentre di fronte a me si svolgono scene degne del miglior teatro dell’assurdo, una signora estrae da una sacca una serie di completini da bambino fatti all’uncinetto e comincia a venderli sul posto.
Evidentemente c’è tolleranza per il co-marketing.
Mamme con piccoli alien al seguito provano maglioncini e golfini ai loro pargoli.
I cani cominciano a presentarsi tra loro, annusandosi il posteriore, ma sempre in rispettoso silenzio e anche tra le persone il ghiaccio si scioglie: la gente chiacchiera, ride, conversa.
Nessuna notifica da social, né squillo molesto viene a turbare questa atmosfera d’antan.
E poi arrivano i piatti.
La nostra buona cucina vera, quella senza contaminazioni al profumo di curcuma, priva di lettini di rucola, monda da zenzero e curry, solletica le mie nari e mi delizia il palato.
Roba semplice: zuppa di farro e fagioli, risotto alle ortiche, zuppa di verdura.
Salto il secondo, con disappunto dell’oste che mi dice: “ma cosa vieni qui a fare se non mangi niente (se te magnet nagot)?” e mi chiede “ma chi ti ha mandato, che gli faccio un culo così?!”.
I miei commensali mangiano una vera super cotoletta alla milanese, con insalata già condita (e guai a te se osi chiedere variazioni sui condimenti).
L’apoteosi dell’appagamento dei sensi la raggiungo quando la sciura depone di fronte a me la mousse di cioccolato, che ha esattamente il sapore di quella che faccio io: di vero burro burroso e cioccolata fondente.
Buonissima.
La risucchio, estatica, benedicendo la loro cucina non spocchiosa, non pretenziosa, non aromatizzata al sapore di qualche cosa.
Mi piacerebbe chiedere il bis, ma la sciura ritorna e schiaffa il dessert davanti al mio vicino, spingendo di lato il piatto con la cotoletta.

Messaggio subliminale: “muoviti che chiudiamo!”.

Sono ormai le 12 e 45. Dopo aver intassato gente in ogni dove, il titolare espone il suo perentorio cartello: COMPLETO – CHIUSO e, impermeabile a ogni supplica, alle 12 e 50 comincia a rifiutare i clienti.
Alle 12 e 58 vengo scodellata fuori dal locale dopo aver pagato l’esorbitante cifra di 4 euro.
Sono euforica.
Rotolandomi dalle risate chiamo i miei amici e li benedico, relazionando sull’esperienza.
Esperienza: parola chiave del fuffa marketing, ma in questo luogo la posso pronunciare, perché è vera.
Siccome sono malata di marketing e comunicazione cerco anche di trovare il senso.
Un senso semplice come le cose buone, un senso che riassumo in 5 concetti.

Il valore esiste quando:
  1. Hai un buon prodotto (cucini bene e soddisfi le esigenze).
  2. La fai semplice e ti fai capire (senza curcuma e zenzero, senza inutili paroloni inglesi e frasi fatte).
  3. Sei te stesso e te ne freghi delle conseguenze (hai il tuo Personal Branding e le tue regole e non hai paura di perdere clienti).
  4. Non accetti chiunque, ma scegli tu (i clienti cafoni con il cellulare acceso e quelli che non pagano, meglio lasciarli perdere).
  5. Applichi un onesto prezzo di mercato (ma ricordati che non sarà per il prezzo che i clienti ti ameranno).
Tutto il resto non serve, è come destrutturare la carbonara per stupire, ma – dopo un po’ – la gente si sveglia.
AMEN
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Scrittura9 novembre 2016

No BellaStoria No Casa Bianca

Le elezioni USA si vincono grazie a un accurato lavoro sul Personal Branding. Lo abbiamo visto con Obama e oggi siamo qui a ragionare su:
Come cavolo ha fatto quel cafone di Trump a vincere le elezioni?

Questa è la domanda del giorno, che alcuni di noi, ancora sotto choc, si pongono. Gli analisti adesso stanno commentando una vittoria che i Simpson avevano predetto nel 2000, in un cartone animato in cui Lisa Simpson, divenuta Presidente, doveva rimediare ai danni del suo predecessore, che – guarda caso – era proprio Trump.
Quando si dice il meraviglioso realismo della fantasia!

Leggi qui il contributo di Davide Dal Maso e Alberto Nalin su questo tema https://www.linkedin.com/pulse/il-marketing-di-trump-vince-contro-la-pubblicità-della-dal-maso

Mentre la pagina web del sito ufficiale dell’immigrazione canadese va in crash e su Twitter si ironizza sul fuggifuggi dagli USA verso il vicino Canada, la rete è in fermento e io mi consolo cercando di comprendere perché, fino all’ultimo, ho sperato che Trump perdesse.

Questo è il punto.

Come tanti altri non speravo che Hillary Clinton vincesse, ma che battesse il suo avversario. Dopo il primo attimo di incredulo sgomento ho quindi deciso di analizzare perché, dal punto di vista dei “contenuti” e del “personal branding” si trattasse della cronaca di una sconfitta annunciata.

Cosa è conveniente mettere in funzione per raggiungere le persone con il tuo messaggio?
Di seguito considero 4 elementi chiave:

  1. Le Emozioni.
  2. La Narrazione.
  3. L’Identificazione.
  4. Il Personal Branding.

Sul fronte delle Emozioni:
il Guascone batte l’Algida

Donald Trump è un terribile, orrendo, volgare guascone.
Ispira disgusto, avversione, rabbia, oppure suscita ammirazione e desiderio di imitarlo. Ricorda i nostri leghisti che urlavano “in culo a Roma ladrona” e in effetti hanno avuto un notevole seguito.
Si aggancia ai sentimenti negativi e alle emozioni pure delle persone, quelle in cui non si ragiona con il lobo prefrontale, ma si fa agire il buon vecchio rettile che da millenni ci preserva dalle minacce e ci fa perpetuare la specie: quell’antico sauro per il quale vige la semplice regola “tu mi dai un pugno, io ti do un pugno”.
Insomma in lui non c’è nulla di tiepido.

Hillary Clinton invece è algida, controllata, calcolatrice.
E’ donna, ma sta antipatica pure alle donne, perché quando becca il consorte con la Lewinsky, abbozza.
Sicuramente reagisce nel modo migliore per mantenere il controllo, ma il controllo – si sa – è il contrario del piacere.
La buona vecchia Medea, se si fosse trovata al posto di Hillary, lo avrebbe sterminato in un bagno di sangue, maledicendo lui e la sua progenie: forse poco efficace a fini politici, ma di grande effetto scenico e gli umani amano il conflitto.
Hillary Clinton ha avuto il suo spannung epico e ha scelto di non giocarselo.

“Vogliono una donna presidente, ma non questa donna”, osservava prima del voto la sondaggista Ann Selzer.

Così è stato.

Sul fronte della Narrazione:
l’Epopea batte la Logica

Senza conflitto non c’è letteratura.
Alla base di una buona storia c’è la tensione narrativa.
Come insegnano le più elementari regole dello storytelling, per avvincere il tuo pubblico ti servono un eroe, un nemico, un doloroso problema e una brillante soluzione.

Trump saccheggia a man bassa l’immaginario collettivo della piccola america razzista, bigotta, omofoba e anticomunista e lo rende suo.
Rispolvera l’epopea dei pionieri al grido di “make America great again” e in quell’avverbio concentra i più potenti simboli dell’aggregazione: l’orgoglio e l’appartenenza, senza contare che si fa aiutare da allitterazioni e consonanze.
A sostenerlo sullo sfondo appare John Wayne, che pure se ammazzava i pellerossa ci è stato simpatico a tutti, almeno fino a quando sono arrivati Dustin Hoffman e Kevin Costner.

“Torniamo a essere uniti” è una delle sue frasi geniali, che fa trasparire la necessità di ristabilire qualcosa che si è perso.
“Torniamo”.
Tornare a un non meglio identificato “prima”, in cui ciascuno può infilarci i fantasmi preferiti: dai cosacchi mangiabambini, ai barbuti incappucciati e imbottiti di tritolo, alle famiglie gay.

Hillary Clinton parla invece la voce della logica e vanta la coerenza di una carriera impegnata e lineare, ma sempre in stretta connessione con il potere.
Di conseguenza l’elettorato segue Trump che gli ricorda “L’establishment vi ha tradito”.

I migliori fatti se non sono narrati con parole chiare e luminose non arrivano al cuore del pubblico e, mentre Trump coltiva il suo brand, Clinton si concentra sulla logica delle azioni.

Sul fronte dell’Identificazione:
il Normale Cialtrone batte la Perfettina

Trump è pieno di difetti: non si è fatto da solo, ma ha ereditato denaro e potere dal padre; è un voltagabbana che ci ha provato prima con i democratici, per poi approdare alla destra, comprendendo che avrebbe meglio soddisfatto i suoi obiettivi; i suoi messaggi sono volutamente offensivi, maleducati, sessisti, perché lui sa bene che su questo codice linguistico aggancia gli strati ignoranti della popolazione, che sono la maggioranza.
Fa attrazione alle fasce povere e prive di diritti, additando loro un nemico comune “l’establishment”; li ispira all’odio e alla divisione, gridando “restiamo uniti”.
Pronuncia parole che dividono, parole pericolose, ma potenti.
Sa il fatto suo e costruisce un brand di spessore.

Hillary Clinton, che invece si è sempre battuta per i diritti, dai giovani detenuti alle madri single, ai bambini disabili, lo ha però sempre fatto da una posizione di potere e privilegio.
Lei parla la lingua dei radical chic, che non convince il sottoproletariato urbano.

Le logiche del networking insegnano che per ispirare le persone è opportuno che tu ti ponga al loro livello: non sopra, né sotto, non troppo bravo, né totalmente inetto, ma sufficientemente incazzato e passionale da trascinare gli altri, agganciando la loro paura, la loro rabbia, il loro dolore.

Le personcine perfette dai capelli composti mancano di umanità e gli esseri umani per identificarsi hanno bisogno del sudore e delle lacrime.
Sono passati millenni da quando il rettile ci governava, ma dentro a quella nocciolina interna al cervello, che si chiama amigdala, funzioniamo ancora così e chi sa muovere quelle leve ci può manipolare a piacimento.

Sul fronte del Personal Branding:
il Creatore di Contenuti batte l’Oppositrice

Una storia da raccontare, che susciti emozioni nel pubblico, che ispiri gli altri a seguirti, funziona solo se lavori seriamente sulla tua intima essenza, altrimenti detta “personal branding”.

Hillary Clinton ha impostato la sua comunicazione “in opposizione” e l’opposizione non è che una forma di dipendenza.
Chi si oppone non ha contenuti e valori propri per cui combattere.
Chi si oppone resta agganciato alla comunicazione dell’altro, al suo eloquio, ai suoi argomenti.
Chi si oppone e non propone il Suo Sogno, resta schiavo delle idee degli oppositori e della concorrenza.
Se al tuo progetto non ci credi tu, perché mai gli altri ti dovrebbero seguire?

Donald Trump ci mette forza ed energia:
ti può fare schifo, ma convince e vince.

In fondo in fondo non facevo il tifo per Hillary nemmeno io, solo speravo che Trump perdesse.
Avevo dimenticato che quando si combatte è opportuno farlo “per qualcosa che mi sta a cuore”, anziché “contro qualcos’altro”.

No #BellaStoria No CasaBianca

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WEB13 febbraio 2016

Il follow up della zia Bettina

La scrittura social, dalla letterina di Natale a Linkedin

Perché si scrive?
Per passione, per sfogarsi, per lavoro, per piacere, per forza.
Scrivere è difficile, impossibile, faticoso; è bello, gratificante, divertente.

Quando ero piccola, oltre a leggere avidamente tutto ciò che mi passava sotto mano, scrivevo.
Per il piacere di rileggere i miei pensieri, finalmente messi in ordine e spinti verso un senso, che all’inizio non conoscevo e che scoprivo poco a poco.

Qualche volta invece mi toccava scrivere per forza: gli auguri di Natale e Pasqua e compleanni.
Una volta si usava così.
La mia allenatrice alla scrittura “per dovere” era la zia Bettina, che mi costringeva a interminabili sedute in cui riempivo pacchi di cartoline e bigliettini, con le frasi di rito.
Non solo le feste comandate, anche ringraziamenti per regali ricevuti, condoglianze, congratulazioni per matrimoni, feste, battesimi, comunioni e cerimonie affini.

La zia Bettina era un drago del follow up: intratteneva le relazioni come il più assiduo dei marketer.
Non le sfuggiva nulla: ricordava a memoria i compleanni di tre generazioni di parenti e parenti acquisiti, era preparatissima sul “santo del giorno” e non vi era onomastico, anche degli omonimi del più oscuro martire minore, che non venisse minuziosamente memorizzato e registrato.

Molto prima di Zuckerberg la zia Bettina faceva networking, con una determinazione degna di un marine in allenamento.
Io ero il suo soldato palladilardo.

Quanto ho odiato i bigliettini da spedire con le frasi di circostanza “tanti cari auguri”, “migliori auguri di buon anno”, “sentite condoglianze”; ricordo la volta in cui mi volle costringere all’orrida rima “un bacetto, Gina Moretto”. Lì mi ribellai.
Fu in quel giorno che nacque in me l’odio per le ripetizioni e l’avversione per i funnel che, lo so, funzionano, ma non per chi ha avuto una ziaBettina nell’albero genealogico.

L’eredità preziosa dell’ineffabile zia è la passione per le relazioni.
Il desiderio di comunicare – per iscritto – con le mie reti, in modo unico e personale.

COSA FUNZIONA PER ME
Farmi le domande
Se decido di stare sui social da professionista è bene che mi faccia delle domande.
- Quali sono i miei obiettivi di business?
- E quelli di marketing?
- A chi sto parlando?
- Cosa voglio che la mia rete faccia per me?
- Cosa faccio di buono per la mia rete?
- Il mio obiettivo cambia o è sempre lo stesso?
Tutte queste domande, periodicamente, me le faccio per iscritto:
Vi assicuro che fa la differenza.

Parlare in prima persona
La prima persona è la voce dell’autobiografia.
Da Rousseau a “longtemps je me suis couché de bonne heure”
parlare in prima persona significa mettersi in gioco e cercare la relazione.
Sui social, prima viene la persona, il “chi sono”, poi l’azione, il “cosa faccio”.
I ruoli sono utili per farsi ricercare su Google, ma quando le persone arrivano da me devono trovare l’unicità, il tratto distintivo, che le farà decidere di relazionarsi con me.

Rispondere. Sempre
Il minimo che posso fare quando qualcuno mi contatta è rispondergli.
Una persona che mi contatta mi regala il suo interesse, il suo tempo, il suo valore.
La risposta – il più tempestiva possibile –
è l’equo scambio che fa comprendere al mio interlocutore che lui per me, vale.

Mettere luce nelle relazioni: la magic mail.
La scrittura è il mio strumento di lavoro
e la uso per mettere in contatto tra loro le persone di valore.
Luca Bozzato nei suoi corsi parla della magic mail.
Una magic mail è un breve testo nel quale spiego ai miei due interlocutori, possono essere anche di più

  • Perché li sto mettendo in contatto
  • Quali sono le caratteristiche di ognuno di loro in cui io riconosco valore
  • Soprattutto la mia esperienza di relazione professionale con ciascuno.

Scrivere segnalazioni su Linkedin
Linkedin è la piattaforma di relazione professionale per eccellenza.
Offre quindi la possibilità di scrivere brevi segnalazioni
sui professionisti della mia rete con cui lavoro.
Meglio essere brevi, sintetici, chiari.
A nessuno interessa sapere che Tizio è simpatico e Caio ha un master.
Ciò che conta è come Tizio si relaziona e in che modo il master di Caio
può garantire le competenze adeguate a un ruolo professionale.

Lo schema ideale per la segnalazione è:

  • Ho lavorato/lavoro con lui/lei
  • Riconosco che è bravo/bravissimo in questo lavoro
  • Apprezzo le sue competenze tecniche nel tale settore
  • Garantisco che sarà di aiuto nello svolgere la tale mansione

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La scrittura nell’era dei social ancora serve.
Grazie ZiaBe.

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